MOBBING: COSA SUCCEDE SE C’E’ LICENZIAMENTO ?
La Cassazione ha recentemente stabilito quanto segue: “è nullo il licenziamento fatto solo per mobbing”. E’ un’importante sentenza che aggiunge il caso del licenziamento, oltre che il risarcimento del danno (se il mobbing è provato) come diritto del lavoratore.
Fonte: la legge per tutti.it – articolo di Mariano Acquaviva – 2 giugno 2022
Link: https://www.laleggepertutti.it/573494_mobbing-cosa-succede-se-ce-licenziamento
E’ valido il licenziamento fatto dal datore di lavoro solo per allontanare il dipendente vittima di vessazioni e mortificazioni?
Lavorare in un contesto problematico può essere difficile, a volte impossibile. Lo sanno bene quanti sono costretti a condividere lo stesso ambiente lavorativo con persone che si rendono insopportabili e persino ostili. Le conseguenze possono essere molto serie e ripercuotersi finanche sulle condizioni di salute. Con questo articolo ci concentreremo su uno specifico aspetto: vedremo, in caso di mobbing, cosa succede se c’è licenziamento. In pratica, cosa accade se un dipendente viene licenziato non perché improduttivo oppure perché è stato inadempiente ai propri obblighi, ma solo perché vittima delle vessazioni del datore di lavoro? Al quesito ha fornito risposta la Corte di Cassazione che, con una recente pronuncia , ha stabilito quali sono le sorti del licenziamento frutto delle ingiuste persecuzioni del datore di lavoro. Se l’argomento ti interessa e vuoi saperne di più, prenditi cinque minuti per proseguire nella lettura: vedremo insieme cosa succede se c’è licenziamento in caso di mobbing.
Cos’è il mobbing?
Il mobbing è una specie di stalking in ambito lavorativo. A dire il vero, il mobbing non è reato, ma si caratterizza allo stesso modo per la condotta persecutoria ai danni della vittima, che in questo caso è il dipendente. Quando il mobbing proviene dal proprio datore, si parla di mobbing verticale (o di “bossing”); al contrario, quando le vessazioni provengono dai colleghi, allora si ha mobbing orizzontale. Più raro è il cosiddetto mobbing ascendente, in cui la vittima è il datore di lavoro.
Mobbing: in cosa consiste?
Il mobbing è particolarmente insidioso in quanto le singole condotte con cui si manifesta non sono, di per sé, illegali. In pratica, il mobbing è un insieme di ripetuti e prolungati comportamenti ostili nei confronti del lavoratore che, però, essendo isolati l’uno dall’altro, non sono necessariamente illeciti.
Ad esempio, cambiare mansioni al dipendente è un potere del datore di lavoro, così come demansionarlo quando ne ricorrono le condizioni. Ugualmente, è lecito chiedere al lavoratore di cambiare ufficio oppure turno. Nemmeno sarebbe illegale isolarlo e non rivolgergli la parola.
Quando, però, tutte queste azioni si verificano ingiustificatamente nei confronti di un dipendente, al solo fine di vessarlo e di rendergli la vita impossibile, allora si ha mobbing.
Insomma: il mobbing si manifesta sotto forma di azioni solo apparentemente legali che, però, messe insieme e ripetute nel tempo, diventano mobbing.
Si può chiedere il risarcimento per mobbing?
Il dipendente ingiustamente vessato dal datore o dai colleghi può chiedere il risarcimento dei danni.
Tocca al lavoratore l’onere di provare non solo la sussistenza del danno alla salute, ma anche che questo danno è dipeso direttamente dalla condotta del datore o dei colleghi. Il dipendente dovrà inoltre dimostrare l’intento persecutorio posto in essere nei suoi confronti dal datore oppure dai colleghi.
Il mobbing può essere provato con qualsiasi mezzo: testimonianze, e-mail, lettere, messaggi, perizie mediche che dimostrano il danno alla salute, filmati e fotografie.
Mobbing: il licenziamento è valido?
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza citata in apertura, ha stabilito che è nullo il licenziamento che è solo l’atto finale di un mobbing con il quale il lavoratore è stato sottoposto a vessazioni e mortificazioni.
Nel caso di specie, a carico del dipendente erano risultati provati sistematici comportamenti ostili che si traducevano in vere e proprie forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, con mortificazione morale del dipendente, che aveva avuto un effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico.
Come “colpo finale”, l’azienda lo aveva licenziato, dimostrando, così, la volontà di allontanarlo. I giudici hanno però disposto la reintegra nel posto di lavoro, annullando il licenziamento.
Per la Cassazione, il licenziamento doveva porsi «in correlazione con la condotta mobbizzante tenuta ai danni del dipendente dalla società e l’unico motivo fondante il licenziamento sia riferito alla volontà di liberarsi e di colpire il lavoratore inviso come ultimo epilogo delle condotte vessatorie a suo carico tenute».
Insomma: è nullo il licenziamento fatto solo per mobbing.
Mobbing: le dimissioni sono valide?
Mentre il licenziamento è nullo, le dimissioni rassegnate per mobbing sono valide. A stabilirlo è stata sempre la Suprema Corte, secondo cui il dipendente indotto a lasciare il posto di lavoro per via delle vessazioni di colleghi e datore non può fare ricorso al giudice per chiedere la reintegra per invalidità delle dimissioni.
Secondo i giudici, sono valide le dimissioni rassegnate dal dipendente mobbizzato, non essendo ravvisabile una vera incapacità naturale del lavoratore. Allo stesso tempo, però, è giusto riconoscere il pregiudizio psico-fisico subito dal lavoratore e ricollegabile al mobbing della società datrice di lavoro, con conseguente diritto al risarcimento.
In altre parole, il mobbing subito in azienda e il conseguente pregiudizio psico-fisico sono meritevoli di risarcimento ma non bastano a ipotizzare una condizione di incapacità di intendere e di volere tale da invalidare le dimissioni con cui si è chiuso il rapporto di lavoro.