MOBBING: LE SENTENZE CHE HANNO FATTO STORIA
Risorsa è veramente grata all’autrice di questo articolo dal titolo: “Mobbing: le sentenze che fanno storia – 300.000 € di risarcimento ad un sanitario” , che riproduciamo integralmente, poiché, pur in riferimento ad uno specifico settore (la sanità) e oltre a presentare la nuova rubrica di infermieristicamente.it “ ha raccolto la testimonianza concreta di un operatore sanitario, ma soprattutto una serie di sentenze che costituiscono il presupposto per poter districarsi in una materia nella quale non esiste ancora una legge in Italia
Fonte: www.infermieristicamente.it Articolo di Maria Luisa Asta – 02/01/2024
Nel mondo frenetico dell’assistenza sanitaria, il benessere dei nostri professionisti è fondamentale per garantire la migliore cura ai pazienti. Purtroppo, il mobbing, o bullismo sul luogo di lavoro, è un problema che colpisce in modo significativo il personale sanitario. Da oggi nasce una nuova rubrica con l’obiettivo di affrontare apertamente questa sfida critica, offrendo risorse, informazioni e supporto a coloro che potrebbero essere coinvolti.
In Affrontare il mobbing sanitario
esploreremo ogni aspetto di questo problema, dal riconoscimento dei segnali precoci all’adozione di misure preventive e alle procedure di denuncia. Inoltre, condivideremo storie di successo e consigli pratici per aiutare i professionisti sanitari a superare le sfide legate al mobbing.
Nel lontano 2016, il NurSind Caltanissetta ha dato vita a un evento di risonanza nazionale, i “Cordoni Rossi”, sventolando le bandiere dell’opposizione ferma e decisa al demansionamento e al mobbing. Un atto coraggioso, maturato in risposta a una dolorosa vicenda che ha coinvolto un veterano infermiere, vittima delle pretese umilianti del suo superiore nell’Unità Complessa, dove aveva dedicato ben 28 anni di servizio.
L’infermiere, un professionista rispettato, si era trovato a essere il bersaglio di una trattativa inaccettabile, con il responsabile di unità che insisteva nel volerlo relegare al ruolo umiliante di “infermiere regolatraffico”. Un’offesa che ha scatenò la protesta del NurSind e la decisione di mettere in piedi l’iniziativa “Cordoni Rossi”, sottolineando con forza il rifiuto categorico nei confronti di pratiche dannose come il demansionamento e il mobbing. Da allora, il fenomeno ha continuato a crescere, estendendosi in maniera preoccupante e finendo per essere protagonista di numerose aule di tribunale. La mancanza di una legge specifica ha lasciato spazio alle sentenze giudiziarie per definire e caratterizzare questo fenomeno, evidenziando la sua portata e le conseguenze negative sulla vita dei lavoratori.
Di seguito una breve rassegna della giurisprudenza.
T.A.R. Lazio sez. I – Roma, 10/09/2015, n. 11187. Il mobbing è una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Ai fini della configurabilità in termini di condotta lesiva del datore di lavoro, deve essere accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi: la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore, infine la prova dell’elemento soggettivo e, cioè, dell’intento persecutorio. L’azione offensiva posta in essere in danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente, deve articolarsi in una serie prolungata di atti e di comportamenti e deve avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazioni o rivelare intenti meramente emulativi (il che non risulta dimostrato nel caso di specie dal ricorrente)”
Cass. n. 3692 del 2023; “In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute.
Cassazione civile sez. lav., 08/04/2022, n.11521. “E’ proprio l’elemento psicologico dell’intento persecutorio a segnare il tratto distintivo tra le ipotesi di mera dequalificazione e quelle di mobbing in cui, sul piano strutturale, la dequalificazione costituisce solo il momento oggettivo dell’illecito datoriale, che va corroborato, sul piano soggettivo, da una volontà datoriale persecutoria. Tale passaggio argomentativo della pronunzia di appello, già da solo sufficiente a radicare le ragioni del rigetto, non è stato toccato da alcuna censura, sicché neppure il quinto motivo di ricorso è meritevole di accoglimento”.
Cassazione penale sez. V, 18/01/2022, n.12827. “Integra il reato di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione e isolamento nell’ambiente di lavoro che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi, tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’articolo 612 bis del codice penale (nella specie il reato è stato ravvisato nei confronti del presidente di una società di servizi e quindi titolare di una posizione di supremazia nei confronti delle persone offese, dipendenti della stessa società e svolgenti funzioni di ausiliari del traffico, il quale, tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, aveva ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita)”.
Cassazione civile sez. lav. – 26/02/2021, n. 5476 . “In tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l’art. 40 del d.lgs. n. 198 del 2006 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta. (Nella specie, la S.C. – in relazione alla domanda con cui una lavoratrice aveva dedotto la sussistenza di una discriminazione per avere il datore di lavoro negato, non procedendo alla proroga di un contratto a termine, il mantenimento in servizio della medesima, a causa del suo stato di gravidanza, e invece concesso il rinnovo di contratti a termine a tutti i colleghi che si trovavano nelle sue stesse condizioni contrattuali – ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la predetta domanda sul rilievo che in giudizio non erano stati forniti elementi circa la stipula di nuovi contratti con gli altri dipendenti fondati sulla medesima causale di quello della lavoratrice, così finendo, però, per porre a carico di quest’ultima una prova piena di tutti gli elementi significativi di una discriminazione, e senza considerare il criterio della vicinanza della prova, il quale portava a ritenere che i contratti in questione fossero nella materiale disponibilità del datore di lavoro)”. Pertanto, il mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice in gravidanza può integrare discriminazione diretta.
Tribunale di Milano, 24/01/2020. “A fronte di molestie ex art. 2, co. 3, d.lgs. 215/2003, consistenti in condotte verbali e materiali poste in essere da un dipendente nei confronti di colleghi di origine africana, il datore di lavoro è condannato al risarcimento del danno, ex artt. 2087 e 2049 c.c., in solido con l’autore materiale del comportamento, oltre che all’adozione di misure volte a rimuovere gli effetti ed a prevenire ulteriori comportamenti discriminatori, con la realizzazione di un corso diretto a sensibilizzare i dipendenti sulle tematiche della discriminazione razziale”.
Cassazione civile sez. lav. 02/01/2020, n. 1. “In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nell’espressione “convinzioni personali”, richiamata dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. 216 del 2003, caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, va ricompresa la discriminazione per motivi sindacali, tenuto conto che l’affiliazione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia, di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee e credenze, suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati”.
Tribunale sez. lav. – Firenze, 22/10/2019. “Costituisce una discriminazione indiretta verso i genitori lavoratori, e in particolare verso le lavoratrici madri, l’organizzazione dell’orario di lavoro che determini — attraverso un inasprimento della disciplina dei ritardi nell’ingresso al lavoro — effetti lesivi, anche solo a livello potenziale, nei confronti dei dipendenti con responsabilità parentali”.
Tribunale – Firenze, 20/04/2016. “Sussiste una discriminazione per ragioni di sesso con violazione dell’art. 2087 c.c. in caso di ripetute molestie sessuali, verbali e fisiche, accertate anche in sede penale, da parte del padre della legale rappresentante della società datrice di lavoro, che di fatto operava come titolare dell’azienda, con conseguente giusta causa di dimissioni e condanna al risarcimento del danno biologico e non patrimoniale da discriminazione ex art. 38, d.lg. n. 198/2006”.
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere- sentenza del 10 febbraio 2015 n. 598. il Tribunale sostiene che “ il dato oggettivo, quindi, della serialità e aggressività delle azioni datoriali, si combina con quello soggettivo della finalità vessatoria e persecutoria dell’autore che, specie in presenza di atti in sé leciti, permette di giungere ad una valutazione finale e complessiva di disvalore ….[..].. quanto poi al sistema di tutele approntabili in favore del lavoratore, la strada è stata già delineata dalla giurisprudenza che per prima si è espressa sul punto e ha trovato consenso unanime della dottrina e ha individuato nell’art. 2087 c.c. una disposizione di chiusura che consente di sanzionare ogni tipo di condotta suscettibile di produrre un danno ingiusto a diritti costituzionalmente garantiti”.Il giudice del lavoro, dichiara la responsabilità dell’Azienda Sanitaria Locale di Caserta in ordine al mobbing subito dal ricorrente e per l’effetto la condanna al pagamento in suo favore della somma complessiva di € 304.738,93 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Dichiara l’illegittimità del demansionamento subito dal ricorrente per il periodo dal 01.01.2003 al 07.08.