LAVORO: DALLA PALAZZINA DI FANTOZZI ALL’HUB QUARTER
Riportiamo integralmente questo articolo di Marco Bentivogli poiché lo spazio di lavoro è una delle cause che può favorire il mobbing. Infatti il controllo e non la libertà dei lavoratori era il presupposto con cui vennero costruite le “palazzine”. Lo smart working è, da questo punto di vista, un cambiamento epocale di concepire il luogo di lavoro, salvaguardando i rapporti personali e la dignità di tutti, ma solo se si saprà passare dagli head quarter agli hub quarter.. Ci piace a questo proposito ricordare che l’ufficio direzionale più famoso era quello del “mega direttore galattico” di Fantozzi e che tale “impiegatucolo” è da considerare un “rivoluzionario” nell’occasione in cui ebbe il coraggio di dire che “La corazzata Potiomkin”, film che i sottoposti erano stati invitati a vedere a casa del capo la sera in cui c’era la partita di calcio, era: “una cag*** pazzesca”
Fonte: Fortune Italia – aprile 2021 – articolo di Marco Bentivogli e commenti della redazione Risorsa
La versione originale di questo articolo è al link: https://www.fortuneita.com/2021/04/02/lavoro-dalla-palazzina-di-fantozzi-allhub-quarter/
Come è noto, oltre che nei contenuti e nel senso del lavoro, il digitale effettua un vero e proprio scongelamento delle variabili spazio e tempo, i luoghi e gli orari. Il luogo non è più statico, cristallizzato per un lungo periodo di tempo o, per alcuni, per tutta la vita, in un solo posto.
Avere un luogo di lavoro ‘diffuso’ o remoto, per tutti, e soprattutto per noi italiani, è un cambiamento ancora sfidante. Lo stesso per quanto riguarda gli orari. La maggiore autonomia e libertà che consente il digitale, essendo più responsabilizzati sugli obiettivi e traguardi ma avendo più spazio nel ‘come, quando e dove’, mette in discussione tutto ciò su cui il pensiero del lavoro della seconda metà del ‘900 confidava: sacralità delle ‘8 ore, 40 la settimana, 1.760 l’anno’.
Quando facevo il sindacalista, nella contrattazione su spazio e tempo l’unico argomento solo parzialmente contrattabile era il secondo: gli orari. Negli ultimi anni di lavoro sindacale mi sono accorto che ridiscutere gli spazi libera il lavoro molto di più che la contrattazione di orari (che al massimo consente una loro rimodulazione).
Un esempio a cui ricorro spesso è la palazzina direzionale del mega-direttore generale di Fantozzi, ovvero quello ‘scatolificio-scrivanocentrico’. A 40 anni di distanza, la gran parte delle palazzine direzionali è ancora così. Al piano terra, gli uffici scatole sono piccoli, e crescono di piano, di metri quadri e di cm di scrivania, salendo nella gerarchia aziendale. Progressivamente, compaiono inequivocabili simboli di status come la pianta, il frigobar, fino al tavolo riunioni e il salottino. Palazzine inutili, costruite su un lavoro ‘scrivanocentrico’ inutile e su uffici e gerarchie costruite sul paradigma del ‘controllo’ e non della libertà. Bisogna avere chiara la tendenza evolutiva del lavoro. Se è vero come è vero che cresce il lavoro a maggiore ingaggio cognitivo, a umanità aumentata, e si comprime quello ‘ripetitivo’, il lavoro a partire dal suo habitat va ripensato per valorizzare e far crescere umanità e competenze. Se il lavoro è sempre più un bene relazionale, un’occasione di crescita, la dimensione umana deve essere ‘accolta’, curata in spazi belli che trasmettano questi stimoli generativi.
Quando gli smartworker rientreranno in sede, torneranno in quello scatolificio e sarà tempo perso. Quel tempo sarà da dedicare a luoghi che favoriscano la condivisione strategica di relazioni sociali e solidali. Per questo, vanno ripensati gli spazi di lavoro, come han fatto in Nokia Italia, in Enel e in moltissime aziende. L’idea di passare da head quarter ad hub quarter è la vera svolta per la rivoluzione culturale della dimensione d’impresa e di lavoro che tutti ci aspettiamo. Ci sono società che aiutano molto a guidare questi processi, come eFM e molte altre. Ma il cambiamento, per non subirlo, va scelto. Innanzitutto, bisogna capire la distanza dei propri modelli di business e di organizzazione del lavoro, quanto siano distanti e inutilmente faticosi e ridondanti rispetto agli obiettivi. Secondo, è fondamentale capire che il contributo di ognuno cresce se l’impresa cura la sua dimensione comunitaria e se comprende la necessità di possedere un’intelligenza sociale. Solo così un’impresa diventerà al contempo una comunità di apprendimento da intrecciare con altre aziende, altri mondi vitali di ogni tipo. È chiaro che per il modello fordista, in cui contavano i pezzi prodotti o i documenti fotocopiati, le vecchie gerarchie e culture organizzative non stridevano in modo eclatante. Oggi, è dimostrato quanto soffochino la produttività. Certo, ripensare tutto e addirittura farlo funzionare spesso a distanza non è semplice, le leadership si devono rimettere in gioco.
Non solo, il completamento di questa trasformazione necessita un cambiamento della città, una rigenerazione della città in senso policentrico e verde. Abbiamo già parlato del diritto ai 15 minuti, non solo in centro ma da estendere in periferia e nelle aree interne. Ma le città, a partire dalle piccole e le medie, ritornano a curare le loro ‘tessiture sociali’ e comunitarie e si riconfigurano come un hub, di lavoro, innovazione, competenze, relazioni e confronto. Mi auguro che chi si candida ad amministrare le città recuperi questa visione, altrimenti il loro declino come luogo di opportunità sarà irreversibile.