DEMANSIONAMENTO DEL DIPENDENTE:QUANDO SI VERIFICA E COME TUTELARSI
Riportiamo di seguito la risposta tratta da un articolo concernente una consulenza resa dall’avv. Ettore Pietro Silva in risposta a una domanda posta da un dipendente bancario che aveva ipotizzato un’azione di mobbing nei suoi confronti. L’avvocato Silva riconduce invece l’azione di specie a “demansionamento” e ne spiega i contenuti, anche in riferimento a sentenze della Cassazione
Si parla di demansionamento quando la decisione di adibire il dipendente a mansioni inferiori non è legittima. Quando la pratica del datore, invece, consiste in una serie di comportamenti posti in essere per un prolungato lasso di tempo nei confronti del dipendente finalizzati ad umiliarlo, bloccargli la carriera, escluderlo progressivamente dal contesto aziendale, si può parlare di mobbing. Ma, nel caso di specie dalle informazioni che il lettore ha fornito, si può a parere dello scrivente escludere il mobbing e rimanere nel campo del demansionamento. Vi è subito da puntualizzare che cambiare le mansioni ad un dipendente è una pratica ammissibile ed assolutamente legale anche se, ovviamente, con delle limitazioni. In generale, anche dopo la firma del contratto di lavoro, il dipendente può essere spostato di mansioni senza il proprio consenso, e quindi adibito a compiti diversi rispetto a quelli assegnatigli inizialmente, ma a condizione che le nuove mansioni devono appartenere allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime da lui effettivamente svolte oppure devono corrispondere a un inquadramento superiore. Non rientra, dunque, nell’ipotesi di cambiamento di mansioni “legale” prevista dalla legge, la “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” o nelle altre ipotesi previste dal contratto collettivo ma quando l’azienda adibisce il dipendente a mansioni inferiori in maniera arbitraria oppure abusa della possibilità concessa dalla legge. Nel caso specifico, bisogna valutare attentamente le circostanze così come si sono avverate: ciò che bisogna verificare è se le nuove mansioni del lettore siano di pari livello rispetto a quelle precedentemente svolte o meno dal lettore. Per fare ciò bisogna considerare il CCNL di riferimento, applicato all’azienda del lettore. Nei contratti collettivi, infatti, si trovano le cosiddette declaratorie contrattuali. In sostanza, il contratto collettivo indica quali sono le caratteristiche dei lavoratori inquadrati in un determinato livello e fa un’elencazione di possibili profili professionali che rientrano in quel livello. In alcuni contratti, inoltre, per ciascun profilo professionale vengono indicate le mansioni tipiche che i dipendenti assunti con quel profilo devono svolgere. È subito da sottolineare che il fatto che il lettore prima coordinasse 10 risorse ed ora con il nuovo inquadramento non più, non è elemento che, di per sè, indichi un demansionamento. Certamente la cosa ha un suo peso, ma il fatto che ora non coordini più nessuno non vuol necessariamente dire che ora stia facendo un lavoro meno importante o meno professionalizzante. Solo a seguito di un’attenta analisi dei fatti e dagli assetti complessivi della nuova collocazione del lettore, il tutto considerato alla luce delle disposizioni del CCNL, può essere determinato se questi sia stato demansionato o meno. Nemmeno il fatto che un collega del lettore abbia preso il suo ruolo può essere considerato un elemento decisivo, di per sè. Tra l’altro, deve essere posto in risalto che formalmente l’inquadramento del lettore e la sua retribuzione siano rimaste invariate. Infatti un elemento molto importante, censurabile da parte del datore di lavoro in tema di demansionamento, è proprio la riduzione dello stipendio. Ma nel caso specifico, per fortuna, non si è verificato. Ma se, comunque, il lettore è convinto di essere stato oggetto di demansionamento, ciò che dovrà essere sottoposto ad attenta analisi fattuale è:
– se la condotta complessiva del suo datore di lavoro possa essere oggetto di censura (in quanto contraria ai doveri contrattuali) e, quindi, fonte di un obbligo risarcitorio nei suoi confronti (per i danni che ha causato);
– quali prove il lettore abbia a disposizione per dimostrare, in un eventuale ipotetico giudizio, i fatti descritti (toccando a lui fornire adeguata dimostrazione dei fatti, del nesso di causa ed effetto tra fatti e danni subìti e della o delle patologie insorte).
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione (Cass. sent. n. 22635 dello 05.11.2015, Cass. sent. n. 10037 del 15.05.2015, Cass. sent. 18927 dello 05.11.2012) che hanno affrontato casi simili hanno chiarito che il demansionamento (cioè l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori al di fuori di ogni previsione contrattuale oppure la non assegnazione ad alcuna mansione) dà diritto al risarcimento del danno (sia patrimoniale che non patrimoniale) che sia stato causato da tali condotte e anche se esse non fossero tali da essere considerate come “mobbing” (a condizione che il lavoratore dimostri in giudizio i fatti di demansionamento, il nesso di causa–effetto tra demansionamento ed insorgenza di patologie psico-fisiche e l’entità di tali patologie che devono essere oggettivamente accertabili e non semplicemente sensazioni emotive interiorizzate).
Quindi, per rispondere alla domanda finale del lettore: “Ci sono gli estremi per ricorrere verso la banca per danni?” si può dire solo che così come ha proposto la vicenda non ci sono sufficienti elementi per dare una risposta né affermativa né negativa: i fatti dettagliati e la possibilità di poterli dimostrare diventano fattori assolutamente decisivi in una vicenda come quella in esame. Il tema è molto delicato e bisogna approfondire molto di più, così come si è cercato di spiegare ed argomentare in precedenza
Fonte: La leggepertutti.it 6- aprile 2019
Sintesi a cura della redazione Risorsa