IL MOBBING NELLA DOTTRINA E GIURISPRUDENZA GIUSLAVORISTICA
Questo articolo, già presente sulla nostra pagina FB, curata dal consigliere Risorsa Salvatore Tonti, è la seconda parte del testo completo consultabile a questo link
La nostra Volontaria Erik Porzio ne ha curato la sintesi
Fonte: “Diritto.it” – dicembre 2020 – autrice: Alessia Mirabile.
Il formale ingresso della nozione di mobbing nella giurisprudenza giuslavoristica italiana si è avuto grazie alla sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999. Nel caso di specie, una lavoratrice era stata assunta con un contratto a termine e per mesi era stata costretta a lavorare confinata in una postazione di lavoro angusta e chiusa tra cassoni di lavorazione, e che le impediva ogni possibile contatto con i colleghi durante l’orario di lavoro ed era, altresì, sottoposta a ripetuti maltrattamenti e molestie, anche di carattere sessuale, da parte di un superiore.
Il Giudice adito, dopo aver accertato che la lavoratrice in precedenza non fosse mai stata soggetta a stati depressivi, e valutato che, invece, durante il periodo in questione era stata investita da “un’autentica catastrofe emotiva e, nel contempo, era stata colpita da una sindrome ansiosa depressiva reattiva che l’aveva, infine, costretta alle dimissioni”, ha fatto espresso riferimento all’art. 32 della Costituzione ed all’art. 2087 c.c., i quali “tutelano tutti i cittadini indistintamente, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere”. Questa sentenza, inoltre, ha considerato necessarie, al fine di poter individuare la fattispecie del mobbing, la ripetitività della condotta e la finalità che essa persegue, stabilendo che il dipendente dovesse essere “oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; azioni il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”. Il Tribunale di Torino ha poi evidenziato, anticipando i tempi, che il datore di lavoro “è tenuto ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti”, conseguentemente, rileva la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. per non aver saputo garantire e tutelare l’integrità psicofisica dei propri dipendenti. Per quanto attiene l’aspetto probatorio, la sentenza ha stabilito che grava unicamente in capo alla lavoratrice la prova della sussistenza del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente e l’ambiente di lavoro. Infine, per quanto riguarda il risarcimento del danno, l’autore, o gli autori, del mobbing rispondono personalmente e direttamente ex art. 2043 c.c. per il danno biologico procurato al lavoratore-vittima. Allo stesso modo, per le ragioni riportate, il datore di lavoro risponde ai sensi degli artt. 2049 e 2087 c.c. Se con la sentenza del Tribunale di Torino sono stati individuati per la prima volta in Italia gli articoli riconducibili ed applicabili ai casi di mobbing; con la sentenza del 17 febbraio 2009 n. 3785, invece, la Suprema Corte di Cassazione civile, sez. lav., ha ben definito tale fenomeno ricordando che si possa parlare di mobbing quando ci si trovi di fronte ad una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui possa conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Anche in ambito penale, nonostante la legislazione italiana non abbia ancora previsto un vero e proprio reato di mobbing, è stato comunque appurato che il mobber con la sua condotta possa integrare le fattispecie criminose di cui agli artt. 323, 582, 590, 609 bis, 610, 612,e 660 del c.p.
La sentenza della suprema corte di cassazione n.27913/2020
Effettuati i doverosi richiami introduttivi, si può passare ad esaminare nel merito la vicenda sulla quale la Suprema Corte di Cassazione ha pronunciato la recente sentenza n. 27913/2020.
Il fatto
Una lavoratrice licenziata dal suo datore di lavoro si è rivolta al Tribunale che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, con conseguente reintegrazione sul luogo di lavoro, e ha disposto la condanna della società datrice al pagamento di una somma risarcitoria, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi. La Corte di Appello ha respinto il ricorso della società datrice avverso la pronuncia di primo grado e ha condannato la stessa al pagamento di € di 5.422,50, a titolo risarcitorio per invalidità temporanea derivante da mobbing. Ai fini della decisione della Corte di Appello ha assunto rilievo la questione che il datore di lavoro, nonostante fosse stato messo al corrente degli episodi coinvolgenti la lavoratrice e che la stessa Corte ha valutato come idonei ad integrare il mobbing, non abbia, però, “voluto indagare a fondo la questione, e nemmeno attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli”. Per tali ragioni, la Corte di Appello ha ritenuto che “sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla R., tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c..”.
Inoltre, il Giudice ha riscontrato la sussistenza tanto dell’elemento oggettivo, costituito da tutti quei comportamenti offensivi e ingiustificati che sistematicamente sono stati perpetrati nei confronti della lavoratrice, quanto da quello soggettivo provato dalle offese e le accuse infondate rivolte alla vittima con l’intento di prevaricare sulla stessa.
La suprema Corte di cassazione pertanto condanna il datore di lavoro.
I supremi giudici, confermando la decisione del giudice del merito, hanno evidenziano che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è responsabile quando non adotta le “misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore” in quanto è suo obbligo “adottare nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori.” Nello specifico, la decisione del Supremo consesso è derivata anche dalla lettura della carta costituzionale, con particolare riferimento all’art.41, dal quale emerge che l’attività produttiva è subordinata all’utilità sociale e che deve essere intesa anche e soprattutto come “realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, libertà e dignità“.
Da ciò deriva che “la mancata predisposizione di tutti i dispositivi atti a tutelare la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro viola l’art. 32 della Costituzione, che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell’individuo, ed altresì l’art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo da parte di quest’ultimo, che non si esaurisce nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico sanitarie o antinfortunistico, ma attiene anche e soprattutto alla predisposizione di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur allo stesso collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio.”