LEGGE ANTI-MOBBING: LA POLITICA CERCA DI RECUPERARE
Riproduciamo alcuni passaggi del testo di questo articolo perché è una tappa tanto attesa dall’associazione Risorsa e da quanti abbiano subito le conseguenze delle pratiche di mobbing, senza che queste venissero riconosciute sul piano normativo. La nostra Presidente Luisa Marucco e il Vice Presidente Ferdinando Ciccopiedi sono stati intervistati ed hanno ricordato l’impegno ventennale nella prevenzione e contrasto del mobbing. Speriamo che le proposte di legge qui esposte vedano la luce, anche per armonizzarle con quelle già esistenti in altri Paesi europei
Fonte: SenzaFiltro. It – articolo di Marco Brando – 20 dicembre 2020 vedi link
Sintesi a cura di Ferdinando Ciccopiedi – Vice Presidente Risorsa. Allegati i pdf delle 3 proposte
Ecco le prime dichiarazioni in esclusiva a SenzaFiltro nell’intervista a Carla Cantone che, con la collega Debora Serracchiani, del PD, solleciteranno l’unificazione delle proposte di legge anti mobbing in discussione nella Commissione Lavoro della Camera. Vi sono infatti altre 2 proposte di legge di Roberto Rossini e Rina De Lorenzo del Movimento 5S.
Domanda di Marco Brando:“Serve un argine per fermare il mobbing, cioè le vessazioni subite da tantissime persone nei luoghi lavoro?
Risposta di Carla Cantone: “Serve, eccome. E forse, dopo anni di attesa, ci sarà. Solleciteremo l’unificazione delle proposte di legge anti-mobbing in discussione nella Commissione Lavoro della Camera. Non solo: chiederemo le audizioni di esperti, associazioni e parti sociali, sindacati e imprenditori, È indispensabile che finalmente una legge arrivi al traguardo”. E aggiunge: “È una questione di diritti e di equità. Questo fenomeno odioso va affrontato una volta per tutte. Perché chi mortifica la dignità di un singolo lavoratore, lede la dignità di tutti i lavoratori”. Poi così prosegue: “Dopo molte proposte e nessun risultato,tutti vogliono introdurre il reato di mobbing nel Codice penale. La proposta Serracchiani-Cantone, si intitola: Disposizioni per la prevenzione e il contrasto della violenza morale e della persecuzione psicologica nei luoghi e nei rapporti di lavoro (mobbing); ripropone quella presentata nel 2013 anche dall’allora deputato Antonio Boccuzzi (unico superstite, nel 2007, della tragedia alla Thyssen di Torino, quando sette operai morirono per un’esplosione dovuta alla consapevole incuria dei dirigenti aziendali, poi condannati). In passato, a partire dal 1996, le proposte sono state altre tre, però nessuna ha destato sufficiente interesse politico per arrivare al traguardo”
Vi sono poi considerazioni dell’autore dell’intervista sulle definizioni di mobbing, sia di quello verticale (da parte dei superiori) che orizzontale (dei colleghi) fino all’ultima forma detta “straining”, in cui le vessazioni sono meno sistematiche. Mancando nel codice civile tali fenomeni, le vittime sono pressoché indifese, e quasi sempre le loro vertenze giudiziarie finiscono in un nulla di fatto. In seguito perdono spesso il posto di lavoro, per dimissioni o licenziamento. Per comprendere quello che c’è in gioco l’autore riporta una sua visita nel cuore di Milano, in via Pace. Nel Policlinico c’è la Clinica del lavoro “Luigi Devoto”, alle spalle del Palazzo di giustizia. E intervista il direttore Luciano Riboldi che spiega come quasi cinquecento uomini e donne all’anno, provenienti da tutta Italia, salgono le scale che portano al “Centro stress e disadattamento lavorativo”: esiste dal 1996 ed è quello che accoglie più pazienti in Italia. Fino a qualche anno fa – dice Riboldi – “si arrivava a ottocento visite, poi la minore disponibilità di personale ha costretto a una riduzione”. Prima di arrivare lì, su suggerimento dei loro avvocati e dopo aver subito ingiustizie costanti nel tempo, le persone hanno già compromesso la loro salute a causa dello stress sul lavoro, che si riflette non solo sulla vita lavorativa, ma anche sui rapporti familiari. Poi hanno dovuto ottenere una richiesta di intervento sottoscritta dai medici di famiglia o da medici del lavoro, psichiatri, psicologi; infine hanno atteso fino a cinque o sei mesi per l’incontro, dopo aver prenotato per mezzo del Servizio sanitario nazionale. Qualche altro centinaio di lavoratori maltrattati riesce a farsi visitare in uno degli altri rari centri pubblici (soprattutto a Monza, Pavia, Pisa e Roma). Sono una piccolissima parte delle migliaia di persone che subiscono questa condizione, celata dall’omertà di chi li circonda e dalle scarse speranze di potersi difendere; il numero reale é difficilmente quantificabile: molti non hanno la forza e i mezzi per reagire. Le diagnosi descrivono ansia, depressione, irritabilità e attacchi di panico; comportamenti di evitamento (un desiderio di fuga da situazioni dolorose); disturbi alimentari, sessuali e del sonno; abuso di vari tipi di sostanze e di medicinali; mancanza di forza di volontà; incapacità di reagire; difficoltà nei rapporti interpersonali; aggressività. A livello fisico le conseguenze sono dure: malessere generale, cefalea, cattiva digestione, disturbi cardiovascolari, calo delle difese immunitarie (che porta a contrarre malattie gravi). Conclude infine il direttore: nel Centro questi pazienti cercano chi è in grado di valutare e certificare il loro stato, sottoscrivendo una perizia indispensabile per provare a far valere le proprie ragioni davanti a un giudice. Obiettivo non facile, perché per ora chi li mette in quelle condizioni non può essere perseguito penalmente, né è equiparato a stalking o bullismo. Marco Brando, per conto di Senza Filtro, ha poi sentito il parere dei loro avvocati i quali percorrono vie traverse nelle “sezioni lavoro” dei tribunali, chiamando in causa l’azienda: l’unica che può essere giudicata per non aver tutelato la salute del dipendente. Il responsabile diretto delle vessazioni non viene giudicato (salvo casi estremi); anzi, può comparire persino come testimone, su richiesta dei legali aziendali, contro la persona che ha vessato. Intanto i colleghi, che la vittima deve necessariamente chiamare a testimoniare, spesso sono reticenti, perché temono per il loro posto di lavoro. I dirigenti ai livelli più alti, cui magari le vittime si erano inutilmente rivolte per segnalare la situazione, di solito non intervengono, per trasformarsi addirittura – quando si arriva in tribunale – nella controparte. In sostanza, per giungere a una soluzione del problema, per vie legali o sindacali, si richiedono tempi e costi troppo elevati. Un’indagine svolta alcuni anni fa dall’Asl di Pescara svela che solo il 28% delle diagnosi elaborate dalle cliniche del lavoro è utilizzata in sede legale; delle altre non resta alcuna traccia. Dunque, prima di essere travolto dall’ansia, chi viene mobbizzato deve avere il sangue freddo per raccogliere prove inconfutabili delle angherie (e-mail, registrazioni, carte); con la preoccupazione di perdere il salario, oltre la serenità già andata in fumo, e di dover pagare un avvocato da contrapporre agli studi legali di cui dispone l’azienda. Ben che vada, le vittime arrivano a una transazione prima della sentenza e ricevono qualche migliaio di euro, che comunque non compensa la quasi ineluttabile perdita del posto di lavoro; tanto più dopo che la legge Fornero (governo Monti) e il Jobs Act (governo Renzi) hanno ridotto moltissimo le tutele per i lavoratori dipendenti nel settore privato. Poi si tratta di ritrovare un’occupazione in un periodo difficile per tutti, quando si è a cavallo tra i quaranta e i cinquant’anni: la fascia di età più colpita, considerata anziana ma lontanissima dalle pensione Per giunta, c’è il rischio che una vicenda simile diventi una macchia sul curriculum. Tornando al Centro milanese, Senza Filtro intervista una delle protagoniste: la dottoressa Giovanna Castellini, dirigente psicologa nel Centro. Questa la testimonianza: “ciò che non si rimargina facilmente è la ferita psicologica. Infatti“mi trovo di fronte ogni giorno persone sofferenti, con l’equilibrio personale e familiare fortemente messo alla prova. Sprecano molti anni e tantissime energie: hanno tutte una famiglia, un affitto o un mutuo da pagare. Sono segnate dallo stress necessario per riuscire a reggere una pressione tremenda e il timore di non avere più uno stipendio. È una situazione drammatica, con pochi strumenti di tutela. Noi lo sappiamo, quindi proviamo a dare consigli, al di là delle diagnosi”. E aggiunge: “Durante l’emergenza sanitaria sono arrivate meno richieste. Per una ragione semplice: la possibilità di lavorare da casa ha ridotto un po’ lo stress nel luogo di lavoro”. Uno dei documenti più recenti è un’indagine clinica su 1.675 soggetti (57,1% donne, età media – per entrambi i sessi – di 46 anni) giunti nel Centro milanese tra gennaio 2014 e dicembre 2016: “Il settore maggiormente rappresentato è quello sanitario (13,4%), seguito dalla grande distribuzione (12,2%), dai servizi (11,2%), dal settore manifatturiero e edilizio (10,4%), dall’amministrazione pubblica (9,1%) e da alberghi, ristorazione, pulizie e mense (8,1%)”. Gli altri pochi documenti raccolti da SenzaFiltro sono più “vecchi” come una ricerca del 2001 presente sul sito dell’Inail sull’incidenza di questo fenomeno. Afferma l’Inail: “Senza contare il ‘sommerso’, dove il lavoratore subisce in silenzio, in tale anno, in Italia il 4% della forza lavoro è vittima di mobbing”. Tradotto in numeri, quasi un milione di dipendenti subisce forme di violenza psicologica sul lavoro. Proseguendo il viaggio nel “mondo del mobbing” Marco Brando scopre che ci sono associazioni di ex mobbizzati pronte ad aiutare gli altri. È il caso dell’associazione Risorsa di Torino, nata nel 2000, cui si sono rivolte centinaia di persone per ottenere consigli. Ecco la testimonianza della Presidente di Risorsa, Luisa Marucco: “Lamentiamo una scarsa sensibilità da parte dei Sindacati; infatti, nonostante ci sia stata una nostra iniziale collaborazione con la CGIL torinese (per la cronaca, SenzaFiltro ha verificato che la CGIL a livello nazionale non ha una linea sul fronte del mobbing) e, poiché manca una legislazione specifica, a livello giudiziario si interviene solo in casi di aggressione fisica o di patologie gravi indotte dal mobbing. Inoltre – in seguito al Jobs Act – non sono perseguibili da parte della magistratura del lavoro eventi molto frequenti nel caso del mobbing, come il demansionamento. Aggiunge poi il Vice Presidente Risorsa, Ferdinando Ciccopiedi: “Stiamo cercando di coinvolgere enti, associazioni e istituzioni a tutti i livelli, con lo scopo di migliorare il benessere di lavoratrici e lavoratori: non solo come elemento di dignità personale, ma anche come mezzo per aumentare la produttività del sistema economico e l’efficienza delle politiche sociali”,
Ora è chiaro – conclude Brando, uno degli autori di SenzaFiltro – come serva una legge, che è anche una battaglia di civiltà per punire i colpevoli . Egli fa un riassunto di quanto è presente a livello europeo ed extra-europeo sul tema. Nell’ordinamento dell’Unione europea esistono molti principi sui quali può fondarsi una strategia di lotta al mobbing. C’è persino, dal 2001, una risoluzione del Parlamento europeo, la A5-0283, dove si invita a individuare una definizione standardizzata del mobbing che possa finalmente essere riconosciuta a livello comunitario; però la maggior parte degli Stati è ancora priva di norme. La Svezia è stata la prima a delineare nel 1993 una legislazione sul tema, pionieristica seppur insufficiente, mentre dal 2002 la Francia ha introdotto il reato di harcèlement moral (molestie morali) nel Codice penale e in quello del lavoro: è prevista la reclusione per un anno e multe fino a 15.000 euro. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito il mobbing viene punito perché per gli ordinamenti di common law è incluso tra i torts; è dunque compreso nella categoria degli harassment (USA), le molestie, e del bullying at work (Regno Unito), il bullismo sul lavoro. In Italia abbiamo invece in cantiere, in questa legislatura, la proposta di legge del PD e le altre due del M5S, tuttora sotto esame (con tempi lunghi) nella Commissione Lavoro. Sono molto simili e quindi unificabili, in modo da accelerare l’iter: vogliono punire chi ricorre ad atteggiamenti vessatori con la reclusione da sei mesi a sei anni e con la multa da 30.000 a 100.000 euro; prevedono pure l’obbligo, per le aziende, della prevenzione e dell’adozione di sanzioni disciplinari. Ci sono aggravanti del reato, quindi aumenti della pena, se gli atti sono commessi dal superiore gerarchico e se colpiscono donne (in stato di gravidanza o nel corso dei primi anni di vita del figlio), minorenni e disabili. Non sarà la soluzione definitiva, però di certo, se la legge entrasse in vigore, i fanatici del mobbing sarebbero un po’ meno “esuberanti”, sapendo di rischiare la galera. Ora sono (quasi) impuniti e lo sanno. È indispensabile che una legge passi. Però occorre sapere che questa battaglia di civiltà non sarà vinta facilmente. Ci sarà qualcuno, in Parlamento e altrove, che cercherà di ostacolarla; magari con l’incoraggiamento di chi, in certe aziende, utilizza o tollera quel clima di terrore.