“IL DISAGIO LAVORATIVO” – MANUALE DI BRUNO TRONATI
Aggiornamenti della “riforma del lavoro” del Governo Renzi, PARTE PRIMA/10 del mio Manuale “Il disagio lavorativo” settembre 2016 Ediesse -Roma; a seguito del successivo completamento e delle modifiche apportati alla riforma stessa e dell’emanazione di decreti attuativi.
“La «riforma del lavoro» del Governo Renzi e il disagio lavorativo: in pratica nel rapporto di lavoro, poteri quasi assoluti ai datori di lavori. Per i lavoratori, notevoli modifiche in peius della precedente legislazione garantista.
A monte c’è la Legge Delega del Parlamento n. 183 del 10 dicembre 2014, con la quale appunto il Parlamento delega il Governo Renzi alla riforma del lavoro che il Governo attuerà con otto Decreti Legislativi emanati tra il 4 marzo e il 14 settembre 2015. Le Istituzioni hanno praticamente dimenticato la Legge Organica Nazionale sul Mobbing, pur più volte promessa. Del “disagio lavorativo” non si parla quasi più né in convegni né sui mezzi di comunicazione e la stessa opinione pubblica è diventata quasi indifferente; e, come già esposto, nella realtà il disagio lavorativo stesso aumenta continuamente come le patologie correlate, fisiche e psichiche, e addirittura i suicidi dei lavoratori. Stante la crisi economica, ormai il disagio lavorativo è qualcosa di cui non vale la pena di occuparsi e non è più preso in considerazione: i lavoratori debbono dare sempre prestazioni da record e accettare ogni condizione di lavoro. Così dopo la Riforma Brunetta della P.A. del 2009, dopo quella Fornero del 2012 , la Riforma del Governo Renzi con otto decreti legislativi (c.d. Jobs Act ) attua una riforma “generale “ del lavoro. Peraltro tre sono i decreti legislativi che interessano in particolare il disagio lavorativo che in questa sede trattiamo e precisamente: – d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, che introduce il nuovo «contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti» e modifica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori sui licenziamenti dei lavoratori; – d.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, concernente “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni” ; – d.lgs. n. 151 del 14 settembre 2015, concernente “Disposizioni su razionalizzazione e semplificazione delle procedure degli adempimenti a carico dei cittadini e delle imprese; altre disposizioni in materia di rapporti di lavoro e pari opportunità” e numerosi altri attuativi della citata legge delega) . Si tratta, come si vedrà, di un quasi totale “rivolgimento” del diritto del lavoro e dei suoi principi garantisti per i lavoratori. Numerose le norme che innovano in peius la precedente legislazione garantista per i lavoratori , in particolare l’art. 2103 c.c. e gli artt. 4 e 18 della legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), in pratica diminuendo anzi in pratica quasi azzerando le tutele dei lavoratori stessi. Così il Jobs Act, innova di gran lunga in peius le seguenti norme.
•(Nuova disciplina delle mansioni) L’art. 2103 c.c., come novellato dall’art. 13 S.d.L, statuisce che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle superiori acquisite nel corso del rapporto di lavoro
ovvero a quelle «equivalenti» alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (divieto di demansionamento). Ciò stante l’obbligo del datore di lavoro di noncompromettere la professionalità già raggiunta dal lavoratore. Vale a dire che il datore di lavoro non può retrocedere il lavoratore dal suo livello di inquadramento assunto o acquisito, ma neanche dalle mansioni esercitate, potendo sì unilateralmente cambiargli le mansioni (c.d. ius variandi) ma con mansioni equivalenti, cioè sempre adeguate alla sua competenza specifica e tali da garantirgli l’accrescimento del suo bagaglio di specifiche conoscenze ed esperienze. Ebbene il Jobs Act , in particolare il d.lgs. n. 81/2015 rivisita la disciplina delle mansioni facendo venir meno il limite della necessità dell’equivalenza delle nuove mansioni nella vecchia accezione. In particolare il datore di lavoro può spostare liberamente il lavoratore ad altre mansioni anche se solo «riconducibili» a quelle svolte purché nell’ambito della stessa categoria legale (di dirigente, di quadro, di impiegato, o di operaio) e livello di inquadramento. E, si badi bene, per tutti i lavoratori non solo per coloro che sono stati assunti dopo il 6 marzo 2015!. Il che vuol dire che, nell’ambito della stessa categoria legale e del livello di inquadramento delle ultime mansioni svolte, il datore di lavoro può spostare il lavoratore a suo piacimento più volte e, se ciò avviene da un lavoro che il lavoratore fa da sempre o da tempo e quindi sa fare bene ad un lavoro che non sa fare, il lavoratore stesso è messo in seria difficoltà e può essere in pratica emarginato in azienda (es. un disegnatore tecnico o un cassiere spostato alle mansioni di magazziniere, eventualmente anche con mansioni di vendita!).
Ma il Jobs Act va anche oltre: il datore di lavoro – sempre rimanendo invariata la retribuzione – può assegnare il lavoratore, qualunque sia la qualifica, anche alle mansioni del livello inferiore – solo di un livello inferiore–in caso di ristrutturazione o riorganizzazione aziendale che incidono sulla posizione del lavoratore (es. per soppressione di un settore lavorativo o reparto a cui è addetto il lavoratore, perdita di commesse, diminuzione degli ordini, ma anche più genericamente perseguimento di un incremento dei profitti quando effettivamente ipotizzabile), il che in pratica si presta ad abusi di false o pretestuose ristrutturazioni o riorganizzazioni. E, aggiunge, anche «in altri casi eventualmente previsti nella contrattazione collettiva» (che in effetti… aprono una prateria, in particolare alla contrattazione collettiva territoriale e aziendale!). E, infine, il Jobs Act prevede addirittura la possibilità di accordi individuali tra datore di lavoro e lavoratore che modifichino in peius il livello di inquadramento del lavoratore (pure più di un livello) ma anche la stessa retribuzione, al fine dell’interesse del lavoratore di salvaguardare il posto di lavoro o conseguire una diversa professionalità o vivere migliori condizioni di vita. Accordi peraltro da fare nelle sedi di Conciliazione, ma ciò non modificala preponderante forza del datore di lavoro perché qualora il lavoratore, particolarmente neoassunto, non accetti le nuove condizioni sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità (se l’alternativa del dipendente è addirittura di perdere il lavoro per licenziamento, la scelta è praticamente obbligata!).
Il Jobs Act infine, per i lavoratori assegnati a mansioni di livello superiore eleva da 3 a 6 mesi l’esercizio effettivo delle mansioni superiori per il diritto all’inquadramento al livello superiore, eccetto il caso in cui si tratti di sostituzione di un collega.
• (Nuova disciplina del controllo a distanza) L’art. 4 S.d.L. vieta il «controllo a distanza o telecontrollo” dei lavoratori nel posto di lavoro con sistemi tecnologici audiovisivi (es. telecamere) a tutela della loro libertà e dignità, consentendolo a tutela dell’impresa e del suo patrimonio solamente per esigenze organizzative o produttive o di sicurezza (ad es. per provare eventuali furti in azienda o altre attività criminose) previo accordo con i sindacati aziendali o, in assenza, l’autorizzazione degli ispettori del Lavoro.
Ebbene il Jobs Act in particolare il d.lgs. n. 151/2015 conferma detta normativa per l’installazione di impianti di sorveglianza fissi, ovviamente ricorrendo le dette esigenze previa la detta procedura. Ma ammette “controlli liberi», cioè senza preventiva autorizzazione, per quanto riguarda i «nuovi» strumenti tecnologici di controllo del lavoro forniti dal datore di lavoro quali tablet, cellulari e posta elettronica aziendali, uso di internet, strumenti di registrazione delle entrate e delle uscite, rilevatori di posizione GPS ecc., in quanto possano ritenersi necessari per l’espletamento dell’attività lavorativa e perciò solamente per le specifiche applicazioni di controllo per le quali sono stati forniti ai lavoratori. Previa sempre, informazione ai lavoratori stessi circa le modalità d’uso e l’effettuazione dei controlli.
Questi strumenti andranno comunque utilizzati senza ledere la privacy dei lavoratori (in rispetto del d.lgs. 196/2003).
I dati raccolti, ovviamente in osservanza della citata normativa, saranno utilizzabilia tutti i fini connessi col il rapporto di lavoro, quindi anche per eventuali provvedimenti disciplinari. Dette nuove norme in peius sul demansionamento e sul controllo a distanza valgono, si badi bene, per tutti i lavoratori, non solo per neoassunti cambiando in pratica le condizioni di lavoro di milioni di persone. Dal che deriva la filosofia che ispira la citata Riforma del lavoro del Governo Renzi di delegare tutte le problematiche del lavoro alla parte datoriale, estraniando al massimo qualsiasi soggetto esterno che prima esercitava controlli (enti ispettivi, giudici e sindacati). Ormai il datore di lavoro come vuole assume i lavoratori, detta le regole del rapporto di lavoro e dei modi di lavorare e licenzia i lavoratori a suo piacimento.
Si realizza così, accanto alla flessibilità in entrata ( totale liberalizzazione dei contratti a termine, diventati acausali), la flessibilità durante il rapporto di lavoro (cambiamento delle mansioni) e la flessibilità in uscita (in genere abrogazione della “reintegra” in caso di licenziamento ingiusto -amplius di seguito). • (Nuova disciplina dei licenziamenti) L’art. 18 S.d.L. (come già appresso novellato dalla legge n. 92/2012,c.d.«Fornero») è riformato ancora profondamente dal d.lgs. n. 23 del 6 marzo 2015, nel senso che in pratica viene consentito il licenziamento in ogni momento per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti dopo l’entrata in vigore del citato decreto cioè assunti dal 7 marzo 2015 (anche nei casi, di conversione di contratto a tempo determinato di apprendistato). Si badi bene, solo per i lavoratori nuovi assunti dal 7 marzo 2015. Per i lavoratori assunti precedentemente al 7 marzo 2015 resta in vigore l’art. 18 novellato dalla «legge Fornero». Infatti, già con la legge n. 92/2012 nota come «legge Fornero», l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato modificato nel senso che, prescindendosi dal numero degli occupati dell’azienda, la reintegra nel posto di lavoro è ammissibile solo per i licenziamenti discriminatori ai sensi dell’art. 15 S.d.L.(per motivo di iscrizione o attività sindacale o partecipazione a scioperi, di idea politica, religione, razza, lingua, sesso ecc.); oppure per quelli comminati in concomitanza di matrimonio, oppure nel periodo di gravidanza, o per fruizione del congedo parentale o per malattia del bambino. In tutti gli altri casi è prevista un’indennità risarcitoria. È previsto peraltro un ulteriore caso di portata generale di reintegrazione nel poso di lavoro, precisamente il licenziamento disciplinare quando sia stata giudizialmente accertata l’insussistenza del fatto contestato, cui deve essere equiparata la fattispecie che il fatto esista ma privo del carattere di illiceità cioè lecito (Cass. Sez. Lav. n. 20540 e n. 20545, entrambe del 26 novembre 2015). Ora, con la nuova Riforma del Governo Renzi, in caso di licenziamenti illegittimi sia per giusta causa cioè per comportamento illegittimo grave del lavoratore da non permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro sia per giustificato motivo del lavoratore (comportamento illegittimo meno grave) o anche dell’azienda ( in caso di ristrutturazione per motivi economici es. per calo non momentaneo e contingente della clientela, mantenere o ampliare la redditività, reggere la competitività), oppure inefficaci per vizi formali (es. mancato rispetto dell’iter delle sanzioni disciplinari), il datore di lavoro dovrà al lavoratore un indennizzo economico di talune (in verità poche) mensilità commisurato all’anzianità di servizio presso l’azienda (2 mensilità per ogni anno di anzianità, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità – tutela obbligatoria). Conciliazione – Per evitare al massimo di andare in giudizio, è prevista tra le parti una conciliazione facoltativa incentivata (con un indennizzo, tramite offerta reale del datore di lavoro con assegno circolare all’incirca d’importo dimezzato rispetto all’indennizzo di cui sopra).
Quanto sopra vale anche per i licenziamenti collettivi, cioè quando un’impresa in difficoltà operi licenziamenti a seguito di ristrutturazioni aziendali in caso di violazione dei presupposti, delle procedure e dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare secondo la legge n. 223/1991. La reintegrazione nel posto di lavoro (c.d. reintegra, tutela reale) resta solamente nei casi più gravi di illegittimità cioè nei casi di licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 15 S.d.L. esclusi peraltro i dirigenti;oppure nei casi di altri licenziamenti vietati nulli come licenziamento per causa di matrimonio, per fruizione di congedi di maternità o parentali, per motivi di disabilità fisica o psichica, oppure di licenziamento disciplinare quando il fatto materiale contestato è insussistente o lecito, oppure di licenziamento intimato in forma orale. Va aggiunto ovviamente il risarcimento danni, in particolare per la mancata percezione degli stipendi.
Il lavoratore, in luogo della reintegrazione, può optare per un’indennità pari a 15 mensilità, più ovviamente il risarcimento danni come sopra. Per le piccole imprese che non superino i 15 dipendenti, l’indennizzo economico nel caso di licenziamenti illegittimi è dimezzato, di 1 mensilità per ogni anno di anzianità con un minimo di 2 e un massimo di 6 mensilità. E la reintegrazione nel posto di lavoro resta solamente nei casi di licenziamento discriminatorio o nullo o intimati in forma orale. Da tener presente che i lavoratori neoassunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti costituiranno in futuro l’intera platea dei lavoratori, ed è quindi da ritenere che si persegua un ricambio generazionale lavorativo dei preassunti con quelli neoassunti alle condizioni molto peggiori di questi ultimi.
E, nel presente, in sostanza viene ad aversi una disciplina dualistica dei licenziamenti per gli stessi fatti, creando una disparità di trattamento tra i lavoratori privati a seconda che siano stati assunti prima o dopo la Riforma dando luogo a possibili sentenze contrastanti qualora i fatti stessi vengano portati in giudizio. Lavoratori pubblici – Si discute anche se la nuova disciplina si applichi ai lavoratori pubblici. Il Governo si è pronunciato in senso negativo in quanto i lavoratori pubblici in genere sono entrati per concorso e quindi anche l’uscita dal lavoro resta particolare, ma diversi giuristi (tra gli altri, Ichino) e la Corte di Cassazione nella sentenza n. 24157 del 26 novembre 2015 si sono pronunciati in senso positivo in quanto il citato art. 51 del Testo Unico del pubblico impiego, d.lgs. n. 165/2001 dichiara che lo Statuto dei Lavoratori e successive modifiche si applicano anche alle pubbliche amministrazioni contrattualizzate, cioè «privatizzate» (peraltro, al contrario, la Corte di Appello di Bologna nella sentenza n. 83/2016 dichiara la nuova disciplina non applicabile ai lavoratori pubblici). Quindi anche l’art. 18 come novellato: i pubblici impiegati assunti dopo la Riforma sarebbero licenziabili parimenti che quelli privati, in particolare senza obbligo di reintegra esclusi i casi di licenziamenti discriminatori e taluni casi di licenziamenti disciplinari; e risarciti con una indennità economica (fatta eccezione peraltro per il pubblico impiego «non contrattualizzato», cioè professori, magistrati e militari).
Diversamente, sarebbe ravvisabile una disparità di trattamento incostituzionale. Però la Cass. Sez. Lav. nella sentenza n. 11868 depositata il 9 giugno 2016 ha affermato che per i dipendenti pubblici vale ancora l’originario art. 18 S.d.L. (non è applicabile la nuova normativa sui licenziamenti né della legge Fornero né della Riforma Renzi, perché la pubblica amministrazione ha un suo diverso ordinamento inclusa la «non licenziabilità»), con la reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo. Ebbene, esposta come sopra la nuova disciplina dei licenziamenti, è da completare la detta filosofia che ispira la Riforma nel senso che impedisce in pratica anche ogni espressione critica e ogni partecipazione dei lavoratori alle decisioni dell’azienda su aspetti critici, in particolare sulla gestione della sicurezza e salute dei lavoratori stessi nei luoghi di lavoro. È presto detto. Sei un lavoratore da espellere per qualsiasi motivo, anche il più banale? Pronto un bel mobbing, ad esempio con demansionamento illecito; non basta, pronto il licenziamento per motivi economici dell’azienda (come esposto, cosa relativamente facile da mettere in campo). Sei un giovane assunto a tempo indeterminato? Lavorerai al massimo fino alla scadenza del beneficio fiscale,
poi niente rinnovo del contratto e fuori. Cambia totalmente «il vivere» dei lavoratori all’interno delle aziende, senza più voce e in totale subalternità ai «capi» e «capetti». Tornando ai casi di demansionamento e di licenziamento per così dire «facili» in base alla nuova normativa, come può opporvisi il lavoratore? Ebbene, quando siano frutto di una condotta del datore di lavoro ritorsiva, fraudolenta o discriminatoria (ovviamente da dimostrare), azionando l’art. 15 S.d.L. (lasciato inalterato) che vieta condotte discriminatorie (per idea politica, affiliazione sindacale, sesso, religione, razza ecc.) volte a creare qualsiasi pregiudizio al lavoratore; con il che potrà ottenere il ripristino delle condizioni pregresse e il risarcimento dei danni. Ma anche, invocando le norme costituzionali ed europee quando violate dalle nuova normativa (il che è frequente). Peraltro, questo nuovo sistema sul licenziamento è quello vigente negli altri paesi d’Europa e negli Stati Uniti, nei quali però la protezione in caso di discriminazioni è molto più forte (cause senza costi per i lavoratori, competente è una Commissione amministrativa con procedure più rapide, risarcimenti molto elevati). L’attuale drammatica realtà esistente nelle aziende, dove i lavoratori sono e si sentono la parte più debole, inerme di fronte all’impresa e i datori di lavoro sono e comunque si sentono autorizzati a tutto ovviamente facilita notevolmente il disagio lavorativo! La Riforma del lavoro del Governo Renzi, peraltro, favorisce i datori di lavoro anche in relazione alla responsabilità penale: le citate modifiche dell’art. 2103 c.c. che consentono il demansionamento «facile» dei lavoratori, dell’art. 4 S.d.L. che consentono in qualche misura il controllo a distanza dei lavoratori, e dell’art. 18 S.d.L. che consentono il licenziamento «facile» dei lavoratori nuovi assunti pagando loro solo un modesto indennizzo forniscono al datore di lavoro agevoli e potenti strumenti di pressione e di ricatto dei lavoratori stessi senza la necessità di ricorrere alle fattispecie di reato che abbiamo trattato. Lo stesso reato di maltrattamenti in famiglia sarà ipotizzabile solo in casi molto limitati (per le piccole aziende), nei quali la prova sarà comunque difficile. Gli altri eventuali reati saranno perseguibili solo autonomamente,senza riferimento alla natura e alla figura unitaria del mobbing (fra altre, Sentenza Cass. n.13088/2014). In buona sostanza e conclusione, la Riforma del Lavoro del Governo Renzi ha in parte «legalizzato» il mobbing e per altro verso «ha creato le condizioni» per una sua più difficile emersione e contrasto.
Per contro nel resto d’Europa, come già esposto, esistono specifiche leggi nazionali antimobbing (in Scandinavia addirittura è considerato mobbing anche se il capo alza la voce!) e sono disposti percorsi formativi e strutture antimobbing a 360 gradi. E, in qualche paese, il mobbing è considerato reato.