Eluana, ora conosci più di noi la verità
Eluana viveva in stato vegetativo, uno stato di apparente incoscienza in cui persistevano inalterate tutte le sue funzioni vitali. La sua non era una malattia terminale, necessitava di quello di cui tutti noi abbiamo bisogno ovvero acqua, cibo, calore umano: ciò che ogni mamma offre al suo bambino. Era alimentata artificialmente perché da sola non poteva farlo, ma questo non si può ritenere accanimento terapeutico, giacchè nutrire un malato non può essere considerata terapia; apriva gli occhi al mattino e li chiudeva alla sera, per quanto avesse perduto forse definitivamente (ma nessuno, in scienza e coscienza, può affermarlo con certezza) la possibilità di reagire agli stimoli verbali o tattili. Se invece percepisse le cure di cui le Suore Misericordine l’hanno circondata negli ultimi quindici anni – ne siano prova la floridezza, la tonicità muscolare e l’assenza di piaghe da decubito – nessuno può dirlo con certezza, anche se studi recentissimi portano a ritenere che non sia affatto improbabile (si veda ad esempio il prestigioso The Lancet Neurology del novembre scorso).
Eluana, insomma, gravemente disabile, ma non per questo meno “persona”, viveva: ostinatamente, senza supporti esterni che non fossero il cibo e l’acqua. E per un malinteso senso di umanità si è voluto negarglieli, somministrandole al contempo sedativi ed antidolorifici, in sé significativi del carattere nient’affatto indolore della “procedura”, che davvero non si vede come potesse essere nel migliore interesse dell’assistita e men che meno tutelarne la dignità. Dignità che, fuor di dubbio, non decade con la sospensione o il venir meno di alcune funzioni fisiologiche, in quanto connaturata all’essere umano.
Rigettato il decreto d’urgenza, non si è voluto neppure attendere l’imminente confronto parlamentare su questo tema di assoluto, indiscutibile rilievo e si è preferito applicare la cosiddetta “procedura” sulla base di una discutibilissima sentenza. Sono stati sufficienti quattro giorni di questo disumano trattamento per avere ragione del fisico già duramente provato e, alle ore 20.10 di lunedì, il cuore di Eluana ha infine ceduto: crisi cardiorespiratoria e arresto cardiocircolatorio, recita l’asettico certificato di decesso.
Per qualcuno, pare, si è trattato di una mera formalità: «Eluana è morta 17 anni fa», aveva sentenziato il dr. De Monte la sera stessa in cui l’aveva prelevata dalla Casa di cura delle Suore Misericordine – presso le quali era stata amorevolmente accudita negli ultimi quindici anni – per condurla alla clinica di Udine ove sarebbe stata “presa in carico” dall’associazione che, con tragica ironia lessicale, ha osato denominarsi “Per Eluana”.
Per altri, riferiscono i quotidiani, la notizia si è addirittura trasformata in occasione di festeggiamenti: mercoledì sera, nella villa secentesca dell’avvocato Campeis, legale udinese della famiglia Englaro, è stato addirittura imbandito un sontuoso banchetto, allo scopo di ringraziare “per la vicinanza e la collaborazione” i giornalisti e particolarmente coloro i quali, in questi anni, hanno fatto da preziosa cassa di risonanza non solo e non tanto per la vicenda umana di Beppino Englaro, ma soprattutto per le tesi degli appartenenti alla Consulta di Bioetica, l’associazione privata che riunisce un pugno di intellettuali di orientamento liberal-radicale che da vent’anni si battono per affermare in Italia il diritto all’eutanasia di Stato.
Per gli schieramenti politici, poi, il tutto è presto scaduto in una desolante occasione per rivendicazioni contrapposte e accuse reciproche.
Noi preferiamo accogliere l’invito di don Tarcisio Puntel, il parroco di Paluzza che ha celebrato le esequie di Eluana: «Le polemiche sono passate, oggi resta il silenzio». Non è tempo di mestizia perché, ha ricordato don Tarcisio, «un funerale cristiano proclama sempre la vita. Cristo è risorto, ecco cosa siamo qui a proclamare oggi: l’uomo non finisce, rinasce in Dio. Celebriamo una vita, la vita di Eluana».
Ma non è neppure tempo di rassegnazione. Come cittadini attendiamo di comprendere perchè, a spese di Eluana, del dolore dei famigliari e stravolgendo il significato del termine “pietà” – che certo non equivale a soppressione del sofferente – si tenta di introdurre surrettiziamente l’eutanasia nel nostro ordinamento giuridico. Ciò rappresenta non solo una grave violazione della Costituzione, la quale prevede che a fare le leggi sia il parlamento e non i giudici, ma soprattutto un tradimento del sentire diffuso di un popolo che mai si è espresso a favore di un tale aberrante istituto e attende invece da anni che vengano potenziate le strutture di accoglienza, le terapie del dolore e sia promossa la logica della cura e non l’abbandono del paziente terminale o gravemente disabile.
Passiva o attiva l’eutanasia resta infatti «una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera“compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza» ( Evangelium Vitae, n. 66)
Dissentiamo da chi scavalca e tradisce la Costituzione stravolgendone l’art. 32 che riconosce il diritto di ogni persona quello di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge): non è infatti vero che esso stabilisca un qualche diritto a prestazioni mediche che favoriscano l’eutanasia passiva. È indubbio infatti che sia i singoli medici sia la sanità come istituzione hanno il dovere di rispettare la volontà di chicchessia di non curarsi, ma è altrettanto indubbio che non possono diventare destinatari di un dovere di aiutare un paziente a morire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale quando sanziona l’aiuto al suicidio.
Condividiamo appieno quindi la ferma contrarietà di vari Ordini dei Medici che, a seguito della recente sentenza del T.A.R. lombardo, hanno immediatamente emesso comunicati di dura critica per lo svilimento della figura del medico ad «acritico esecutore di volontà sanitarie altrui». L’atto eutanasico provoca infatti uno squilibrio nella relazione fra medico e paziente, che risulta necessariamente sbilanciata verso l’uno o verso l’altro e, da ultimo, distrugge tale relazione. Nel caso dell’eutanasia volontaria, infatti, la volontà del paziente diventa insindacabile, imponendosi su quella del medico, ridotto a mero esecutore, strumento di realizzazione del proprio intento suicidario. Nell’eutanasia non consensuale, al contrario, è il medico (qualche volta il tutore legale!) che impone la sua volontà a quella del paziente, il quale non sarebbe mai sicuro di vedere rispettato il suo fondamentale diritto alla vita in condizioni di malattia grave o terminale.
E se non basta il Codice di Deontologia Medica, almeno non si ignori la “Convenzione ONU sui diritti dei disabili”, da pochi giorni ratificata dal nostro Senato, nella quale si afferma esplicitamente che alle persone disabili, in qualunque condizione esse si trovino, non sia possibile rifiutare l’alimentazione e l’idratazione!
Evitare che si ripetano casi simili a quello di Eluana è una questione di civiltà: «La civiltà di un popolo – ricorda Benedetto XVI – si misura dalla capacità di servire la vita… E’ impegno di tutti accogliere la vita umana come dono da rispettare, tutelare e promuovere, ancor più quando essa è fragile e bisognosa di attenzioni e di cure, sia prima della nascita che nella sua fase terminale».
Tematiche come il testamento biologico, le direttive anticipate di trattamento, perfino l’eutanasia sembrano assurgere a priorità della nostra agenda politica: sta a noi scegliere di costruire insieme un messaggio positivo sulla relazione terapeutica di fine vita, basata sulla cura e non sull’abbandono terapeutico.
Come cristiani non possiamo dimenticare che alla fine di tutto saremo esaminati sull’amore al più piccolo dei nostri fratelli. E come Eluana che, nel fiore dei suoi anni, era tornata ad essere come un bimbo fra le braccia della sua mamma, ricordiamo che molti altri uomini e donne bisognosi di tutto a causa di qualche grave disabilità – che, lungi dal diminuirla, semmai esalta la loro dignità – sono affidati alle nostre cure che non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo far loro mancare.