POLIS POLICY – ACCADEMIA DI ALTA FORMAZIONE – III SESSIONE
Sintesi e commenti a cura di Ferdinando Ciccopiedi – Vice Presidente Risorsa
Il titolo valido per le 3 sessioni di quest’anno dell’accademia di alta formazione organizzata dall’associazione Difendiamo il futuro era: “Ripartire dalla persona: solo il lavoro salverà l’Italia”
L’ultima sessione di sabato 20 marzo esaminava un particolare aspetto delle modalità con cui è possibile salvare il lavoro, cioè come questo si trovi tra “Welfare state e welfare community”
Mentre è noto come con “Welfare State” si indichi lo “Stato del benessere” o, con valenza negativa: “Stato assistenziale”, comunque con fini solidaristici, meno nota è la dicitura di “Welfare community” da interpretarsi, da un lato come ritiro dello Stato dalle attività assistenziali, dall’altro come intervento della società civile nelle medesime attività, giungendo alla creazione di un “secondo welfare” . Poiché trai i corpi della società civile rientra a pieno titolo il Terzo Settore, di cui Risorsa fa parte, è stato molto interessante per me partecipare a questa sessione, naturalmente in streaming. La modalità scelta dagli organizzatori non prevedeva una “lectio magistralis” frontale dei relatori, ma brevi loro interventi in dibattito con i “discussant”, cioè coloro che non sono solo partecipanti, ma sono coinvolti nelle discussioni. Questa distinzione mi ha permesso di suddividere i partecipanti in 3 categorie: professori, discussant professionali (rappresentanti di Fondazioni di origine bancaria e non, sindacalisti) e discussant studenti. Ritengo quest’ultima categoria molto importante poiché dimostra attenzione anche a chi, solitamente, è escluso da questo tipo di conferenze, ma che sarà protagonista del domani. Gli interventi contenevano elementi innovativi, assieme a concetti che già erano stati espressi nelle precedenti sessioni, ma, si sa, “repetita iuvant”
I professori
Del primo dei professori , che, oltre l’attività accademica, ha ricoperto anche ruoli istituzionali, riassumo alcuni spunti:
- E’ stato messo in evidenza che da 25 anni l’Italia subisce un calo sia dal punto di vista economico, con la riduzione di un quarto del reddito pro capite sia dal punto di vista demografico, con il calo delle nascite, solo in parte sostituito dai flussi migratori. Un elemento di speranza sta nella “risorsa” capitale umano, oggi non utilizzato adeguatamente per quanto riguarda la disoccupazione (anche intellettuale) dei giovani e delle donne.
- E’ stato richiamato che l’attuale blocco dei licenziamenti non favorisce certo il rinnovo dei contratti a tempo determinato dei giovani nell’industria, mentre le donne vengono lasciate fuori dai servizi e dal commercio al dettaglio. Si può quindi dire che la crisi del 2008 era industriale, con la riduzione dell’export, mentre quella determinata dalla cattiva organizzazione per far fronte alla pandemia è una crisi di servizi: si pensi che non esiste un piano vaccinale prioritario per le cassiere dei supermercati, più rischio dei professori universitari, cui è stata data la precedenza. Anche le donne occupate nella cura dei figli e degli anziani rischiano di essere estromesse dal mondo del lavoro.
- Occorre quindi aumentare l’offerta di lavoro, ridurre la fuga dei cervelli che sarebbero utili nel dare efficienza alla Pubblica Amministrazione, ridurre l’attenzione al “non lavoro” di cui sono espressione quota 100 e reddito di cittadinanza.
- Sarebbe sufficiente, a questo proposito, la decontribuzione lavorativa, ma è inutile se non funzionano i centri per l’impiego per il lavoro è scarso. Da una parte è necessaria una maggior “etica del lavoro” (vedi congedi parentali) e la possibilità di cumulo dei redditi per i pensionati (o prepensionati) su cui ci sono rigidissimi controlli ispettivi.
- Ma tutto dovrebbe iniziare dalla scuola, con il potenziare le lauree brevi professionalizzanti in accordo con le aziende e con il favorire la ricerca che, con l’agglomerazione degli investimenti, consente grandi potenzialità partendo da piccoli numeri. Ai giovani assunti nel settore pubblico dovrebbero poi essere offerte valide motivazioni di carriera e non solo posizioni di rendita, dando punteggi nei concorsi (è possibile farli anche a distanza) anche alle attività extra curricolari (es. volontariato e servizi collettivi).
- Penalizzazione dei contratti a tempo determinato e unificazione salariale (di genere e geografica) sono altre 2 leve per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro a giovani e donne. Tuttavia la contrattazione salariale decentrata per le specificità delle aziende è prevedibile per una migliore organizzazione del lavoro in smart working (creando ad es. degli spazi lavorativi vicini a casa dei dipendenti). La riduzione delle tasse sul lavoro non escluderebbe una tassazione delle rendite da capitale, così come l’offerta di servizi di welfare funzionanti potrebbe attirare in Italia, in funzione del suo clima mite, anziani dall’estero (nord Europa), evitando l’emorragia dei pensionati italiani che vanno all’estero.
Il secondo professore è un eminente economista e teorico del Terzo Settore e, in deroga alla regola di Risorsa di citare solo i contenuti delle relazioni, faccio il suo nome: è Stefano Zamagni, 1943, professore di Economia Politica presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. Sono certo che il prof. Zamagni condivide gli obiettivi della nostra associazione, poiché la relazione è incentrata sul concetto: del lavoro “decente”. Ecco le sue considerazioni:
– nel pieno dell’economia neo-liberista era stato proposto di cambiare l’articolo 1 della Costituzione, ove al posto della Repubblica fondata sul lavoro doveva essere scritto che la Repubblica era fondata sui “consumatori” poiché non tutti lavorano, ma tutti consumano. Nello stile del professore, questa è “un’idiozia”, poiché il lavoro è un diritto fondamentale
– esistono 2 dimensioni del lavoro: la prima è detta “acquisitiva” poiché con esso si crea potere d’acquisto per ottenere il necessario per vivere ed è quindi un lavoro “giusto”. Ma vi è una seconda dimensione, detta “espressiva”, ove ciascuno esplica il suo potenziale, a patto che il suo lavoro sia “decente”. L’esempio più recente della distinzione è stata data dalla Goldman Sachs, in cui veniva chiesto ai dipendenti di lavorare 85 ore/settimana: a fronte di una buona paga veniva tolta loro la personalità: rimanevano solo 8 ore/giorno per mangiare e dormire!
– la sentenza n. 131 giugno 220 della Corte Costituzionale è una pietra miliare nello stabilire la ripartizione dei servizi di welfare tra attività legislative e amministrative di competenza tra Stato, Regioni e Terzo Settore. Per la prima volta infatti trova applicazione il principio di sussidiarietà a favore della cittadinanza attiva di aggregazioni sociali, dando a tutti pari dignità. Nel mondo del lavoro, le politiche attive e gli ammortizzatori sociali hanno agito, negli ultimi 20 anni, sulla dimensione “acquisitiva” dei singoli (garantire un potere d’acquisto) mentre con tale sentenza il lavoro si apre alla dimensione “espressiva”, della “social community”
– facendo un po’ di storia, Zamagni rileva che il welfare State nasce in Inghilterra nel 1942 per la necessità dello Stato, in un’economia di guerra, di redistribuire le risorsa in senso universalistico. In USA esisteva dal 1919, ma definito come “Welfare capitalism” dai fondatori Rockfeller e Ford, convinti che fossero le aziende a farsi carico delle persone, secondo il “restitution principle”, redistribuendo i guadagni. Redistribuire tra soli dipendenti aziendali significava però spezzare la coesione sociale. Entrambi i sistemi di welfare entrano in crisi negli anni ’80, in Europa per l’insostenibilità finanziaria, in USA per non essere riuscito a garantire il lavoro “decente”. E’ così che si fa strada il “welfare community” (o welfare society), ove Stato, Mercato e Comunità interagiscono non estemporaneamente ma in co-progettazione, stabilendo priorità, risorsa e modi di gestione e dando così origine alla “governance”. In Italia, l’Ente locale (Regione) decide, per le attività di welfare, di non gestire direttamente le risorse, limitandosi a stabilire capitolati e offrendo la gestione al soggetto privato. Si realizza così un’economia circolare tra legislatori, portatori di conoscenze e portatori di risorse: lo Stato cede così la titolarità alla società, ma dopo aver stabilito un modello di ordine sociale e il neo-liberismo economico viene superato, con il riprinstino di un lavoro “decente” . Si può allora dire che è definitivamente chiusa l’epoca, nata nel 1911, del Taylorismo e di un’organizzazione del lavoro che Zamagni chiama “indecente”. Se il taylorismo ha aumentato la produttività di un’azienda come la Ford attraverso le catene di montaggio e la gerarchia delle funzioni, ove il capo ha sempre ragione e gli operai non sono assunti per pensare ma solo per obbedire, perché sono dei “bovini tranquilli”, bisogna pensare che in Europa la storia è diversa. In Italia l’esperienza olivettiana aveva adottato la teoria dello psicologo e sociologo australiano Elton Mayo, del 1927, nota come “Human Relations movement” che sosteneva come lo sviluppo di un forte senso di gruppo con autonomia e responsabilità aumentasse la produttività. In Russia, le teorie tayloriste erano state imposte da Lenin come modello organizzativo del lavoro, ma era stato Gramsci a criticarle negli anni ’30 poiché: “diminuivano il benessere dei lavoratori”. Welfare capitalism e materialismo marxista avevano in comune di non permettere ai lavoratori di alzare la voce, con la minaccia di perdere il lavoro, ma neanche di sentirsi realizzati
-al tempo dell’emergenza Covid, il blocco dei licenziamenti e la CIG hanno occultato il problema del “lavoro decente” cui non hanno accesso né il 16% dei giovani che abbandonano la scuola dell’obbligo, né i fruitori del reddito di cittadinanza che, per quanto “giusto” non è un lavoro “decente”. In più vi sono coloro che hanno problemi psicologici provocati dal confinamento in casa e dall’assenza degli altri e l’individualismo non è certo generativo. Solo l’accostamento tra psicologia ed economia potrà accelerare i tempi del welfare community
I professionisti
- Il rappresentante della Fondazione per la scuola: https://www.fondazionescuola.it/ rileva che oggi manca il collegamento tra formazione e lavoro, soprattutto in aree degradate delle grandi città, dove anziché conoscenza c’è segregazione che impedisce di crescere. Ed è qui che si può pensare ad un’alleanza tra Scuola e Terzo Settore, ad es. nell’accompagnamento delle famiglie all’utilizzo della rete, nella mediazione tra insegnanti e genitori di studenti immigrati, nell’alfabetizzazione di persone che non accedono ai servizi per l’impiego perché non hanno competenze alfabetiche e quindi non sono in grado di essere formati. In tali casi il Terzo Settore si può sostituire alla famiglia che fino ad oggi rappresenta il vero welfare community, poiché si prende carico i figli fino ad oltre 30 anni d’età, anche se non può dare loro competenze per il lavoro. Dalla discussione con il prof. Zamagni emerge come talvolta la scuola sia rimasta indietro rispetto all’evoluzione dei tempi: ad esempio il “Prof.” ha sempre ragione e se uno studente solleva obiezioni, viene bocciato (per la verità ci sono anche casi contrari, specie quando i genitori sostengono i figli fannulloni contro i professori). Inoltre in Italia manca la “conoscenza al servizio dell’azione”, concetto già espresso da Aristotele che secoli fa parlava di “con-azione” volendo significare il connubio tra conoscenza e azione. Ciò è vero soprattutto nella scuola quando manca il collegamento con il lavoro: sembra che sia più vero che prima si studia e poi si lavora. Interessante è anche, nel dibattito, la distinzione tra istruzione (mettere dentro) ed educazione (tirar fuori): ebbene, i professori sono oggi degli “istruttori” e non degli “educatori”. Il risultato è che vi sono laureati che non sanno far nulla, dopo il “flop” dell’alternanza scuola-lavoro. Bisogna anche considerare che se uno studente è timido, sarebbe compito dei professori-educatori tirare fuori quello che sa e non riesce ad esprimere, altrimenti anche un istruttore si sente frustrato. Ultima contraddizione è la netta separazione tra gli studi scientifici e quelli umanistici: un medico conosce la scienza medica, ma, a volte, non è capace di portare una parola di conforto al malato. E’ evidente che qui il lavoro dei volontari del Terzo Settore eserciterebbe una sorta di “governance” favorendo il concorso di competenze diverse.
- Il sindacalista rileva come nei più recenti contratti di lavoro si cominci ad estendere la tutela della salute anche ai familiari dei dipendenti, sul modello dell’ex mutua MALF. Ma il problema principale è quello di rendere il lavoro stabile, riducendo l’eccesso di lavoro atipico, poiché la mancanza di una prospettiva di vita porta ad un welfare assistenziale e non attivo, aggravata dalla ridottissima dimensione delle aziende che non possono neanche accedere agli ammortizzatori o versare contributi. C’è poi il problema dell’evasione fiscale che, aggiunto al problema del lavoro stabile, e alla disincentivazione del lavoro precario, rende solo consequenziale, a suo parere, il tema del lavoro “decente”. Il punto debole dello Stato viene individuato nella fornitura di servizi standardizzati: ad es. nelle malattie non si forniscono risposte diverse a soggetti diversi e il tutto viene aggravato dalla burocrazia, che men che meno tiene conto delle esigenze di ciascuno. Anche qui un intervento del Terzo Settore porterebbe alla conoscenza dei veri problemi delle persone
- I rappresentanti delle 2 principali Fondazioni di origine bancaria in Piemonte, la Compagnia di S. Paolo: http://www.compagniadisanpaolo.it e fondazione CRT http://www.fondazionecrt.it mettono l’accento sui loro progetti volti a favorire lo sviluppo umano attraverso l’innovazione (fusione tra dimensione acquisitiva ed espressiva del lavoro). Solo le aziende innovative che tengono conto del benessere dei dipendenti e di tutti gli stakeholders (fornitori, ambiente, territorio) lo trasformano in “ben-essere” (wellness). Sono proprio queste che ottengono successo e profitti (almeno nel medio periodo), riportando in auge il welfare aziendale come espressione della Responsabilità Sociale d’Impresa. Ma se, come al Sud, mancano lavoro e un vero sistema di welfare universalistico, manca evidentemente anche il welfare aziendale: il risultato è che crescono le disuguaglianze. Se poi ci si trova di fronte alle “micro imprese” che non possono innovare, se non aggregandosi, la funzione del Terzo Settore può fare da stimolo, recependo le loro esigenze. Altro problema che le Fondazioni cercano di risolvere è il ruolo delle donne che devono conciliare lavoro, famiglia, educazione dei figli e cura degli anziani. Non solo, esse intervengono anche nel creare nuove professionalità nel Terzo Settore, in modo che il non profit scambi reciprocamente con il mondo profit tecniche ed esperienze manageriali. C’è poi il problema della Pubblica Amministrazione nel momento in cui i suoi dirigenti vogliono essere valutati solo in base al rispetto di norme e procedure, anche se i risultati delle loro azioni sono scarsamente efficienti ed efficaci. E’ proprio nell’epoca della pandemia che occorrerebbe una “valutazione d’impatto” di scelte solo burocratiche. L’esperienza sul territorio delle 2 Fondazioni dimostra attenzione per le aree marginali, come le aree di montagna, in cui è necessario portare la banda larga e creare occasioni di socializzazione. Vengono citati anche i limiti del sindacato che, idealizza magari il lavoro “decente” ma contemporaneamente difende i diritti acquisiti a scapito dei giovani che devono entrare nel mondo del lavoro. Anzi, a questi, viene inculcata – anche dalla famiglia – l’avversione al lavoro manuale, trasmettendo il concetto che il lavoro manuale è fatica. A ciò è collegato il tema della formazione professionalizzante (lauree brevi e ITS), su cui le Fondazioni intervengono con diversi progetti. Sempre in tema di giovani viene sottolineata la polarizzazione tra fasce: nuove generazioni (0-6 anni) bisognose di servizi quali asili nido e sulle quali è in costruzione il “Next generation EU”; giovani (16 – 29 anni); adulti (30 – 65 anni). Sono proprio questi ultimi a portare, tramite l’affiancamento, la loro esperienza in favore dei giovani: è quella collaborazione intergenerazionale che potrà portare ad un “patto per il lavoro” in cui tutti trovino spazio, con pari opportunità di genere. Sono proprio queste “fasce” di persone che costituiscono, come “cittadini”, il corpo intermedio più importante.
Gli studenti
- La loro più grande preoccupazione, come emerge dalle domande, è se, nel “contenitore” del welfare, sia possibile inserire il problema delle pensioni che, in epoca di precarietà lavorativa, difficilmente consente forme di integrazioni pensionistiche private, specie quando si perde il lavoro.
- Altro tema è che nel mondo universitario cresce l’individualismo: gli studenti si aggregano sempre meno e non pensano al futuro (tanto meno alla pensione). La funzione dell’associazionismo con tipiche attività di gruppo può contrastare tale tendenza. E’ evidente che, di questi tempi, la riapertura delle scuole è prioritaria “whatever it takes”
- La struttura “verticale” sia nella scuola che nel lavoro non è la soluzione a problemi complessi, ove è necessaria la dimensione “circolare” in ogni aspetto del vivere
Considerazioni finali per Risorsa
L’aver chiamato, da parte di un relatore, il capitale umano una: “ Risorsa”, ci rafforza nella nostra convinzione che ogni persona è una risorsa per la società. In altri tempi, avrei abbracciato il prof. Zamagni quando parlava di “lavoro decente” come dimensione “espressiva” del lavoratore, ma tutta la sua relazione è un inno alla dignità del lavoro, cui Risorsa aspira. Il punto “baricentrico” di tutte le discussioni è l’importanza del Terzo Settore come elemento “generativo” di una nuova società più giusta che nascerà dalla pandemia: non può che rendermi orgoglioso di appartenervi con tutta l’Associazione Risorsa