Demansionamento, il risarcimento del danno deve essere commisurato alla durata effettiva
Scatta il risarcimento del danno per il dipendente demansionato. E la quantificazione può essere correttamente operata in via equitativa dal giudice di merito parametrandola sui giorni di effettiva compressione della professionalità. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18965 del 9 settembre 2014 – Corte di Cassazione – respingendo il ricorso di un banca.
Il caso trae origine dal ricorso presentato dalla dipendente di una banca, con qualifica di “quadro”, declassata con l’assegnazione di mansioni inferiori rispetto alla qualifica di appartenenza. Lamentava, in particolare, che dagli inizi del 1999 la Direzione aveva adottato nei suoi confronti soprusi e angherie; che dal 2000, trasferita di ufficio, aveva trascorso la sua giornata quasi del tutto inattiva perché non le era stato affidato alcun incarico; che tali comportamenti erano stati particolarmente gravi in quanto iniziati in un periodo per lei difficile per gravissimi motivi familiari (essendo stato il coniuge colpito da una grave malattia che lo aveva portato alla morte nel dicembre 1999). In conclusione chiedeva il risarcimento dei danni subiti per effetto delle continue vessazioni (mobbing) di cui era stata destinataria, da quantificarsi, anche in via equitativa; chiedeva, poi, che accertata la sua dequalificazione, le fossero assegnate mansioni adeguate alla sua professionalità, con condanna della società al risarcimento danni, da quantificarsi anche in via equitativa. Il giudice di prime cure dichiarava la nullità della domanda riguardante il mobbing ed accoglieva la richiesta risarcitoria per danni alla professionalità per esservi stata dequalificazione, quantificando equitativamente il risarcimento nella misura della metà delle retribuzioni ricevute per le giornate di effettiva attività con riferimento al predetto periodo, oltre accessori. Nel ricorso in appello, la società precisava che non era stato provato alcun danno, considerato in re ipsa dal giudice, e chiedeva pertanto la parziale riforma della sentenza di primo grado con rigetto della domanda riguardante la asseritadequalificazione.
Con appello incidentale la lavoratrice chiedeva che la quantificazione del risarcimento fosse estesa anche ai giorni di assenza dal lavoro nel periodo riconosciuto dal primo giudice e che fosse accolta anche la domanda di risarcimento da mobbing essendo stato dedotto ogni elemento utile ai fini della sua individuazione. La Corte d’Appello di Napoli, tuttavia, rigettava entrambi gli appelli. In particolare, la Corte territoriale riteneva accertato il demansionamento della lavoratrice a seguito dello svolgimento di attività del tutto secondarie e marginali, ma riteneva altresì corretta la quantificazione operata dal primo giudice sulla base delle giornate lavorative effettive e, seppure considerava valida la domanda di risarcimento per mobbing, la rigettava nel merito, non essendo stati neppure allegati reiterati e specifici comportamenti datoriali vessatori e aggressivi a suo danno, come tali “mobbizzanti”
La Corte di Cassazione respinge il ricorso presentato dalla società. La Corte territoriale ha correttamente affermato, ad avviso degli ermellini, che “le mansioni affidate alla appellata dal settembre 2000 non sono più state quelle di preposto con altri dipendenti a lei sottoposti ma, oltre ad essere di poca rilevanza, escludevano anche la posizione di preposto che, sebbene non siano le uniche affidate ai quadri, sono certo quelle maggiormente qualificanti, rappresentative e gratificanti; anzi, ella fu sottoposta gerarchicamente ad un altro quadro e lasciata sostanzialmente inattiva, visto che le attività affidatele la tenevano occupata poco tempo nell’ambito della giornata lavorativa”. In merito alla quantificazione del danno in via equitativa, la Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che “qualora proceda alla liquidazione del danno in via equitativa, il giudice di merito, affinché la sua decisione non presenti i connotati della arbitrarietà, deve indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, risultando il suo potere discrezionale sottratto a qualsiasi sindacato in sede di legittimità solo allorché si dia conto che sono stati considerati i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati” (v. fra le altre Cass. 4-4-2013 n. 8213). Nel caso in esame la Corte d’Appello, nel confermare la pronuncia di primo grado circa la quantificazione del risarcimento del danno nel 50% delle retribuzioni giornaliere spettanti per ogni giorno di effettivo servizio, ha affermato che, “considerato anche che il demansionamento si è perpetrato per meno di sei mesi”, “appare rispondente ad equità ritenere che il suo bagaglio professionale sia stato compromesso solo durante le poche giornate in cui ella si è dedicata alle nuove mansioni che, peraltro, non richiedevano alcun impegno e non la occupavano per tutte le ore di lavoro”. Tale motivazione, ritiene la Suprema Corte, risulta senz’altro conforme al principio sopra richiamato (essendo evidenziati il criterio e i fatti rilevanti).