Le ragioni (e le canzoni) della nostra azione caritativa/ 3. Incontro con Stefano Turi

Don Stefano Turi, un giovane prete, parroco in un quartiere popolare di Torino, ha partecipato alla consueta riunione che i volontari de La goccia di Lube fanno tra loro dopo aver effettuato i colloqui con nuove persone da prendere in carico: uomini e donne perlopiù in detenzione domiciliare o in affidamento in prova al servizio sociale per accompagnarli nella ricerca di un lavoro. La riunione ha sempre lo scopo di tenere deste le motivazioni di questa che i volontari chiamano “caritativa”. Don Stefano ascolta i vari interventi, ognuno cerca di rispondere alla domanda su ciò che li muove nello stare a fianco di adulti o giovani che abbiano avuto problemi con la giustizia. Tra loro ci sono anche volontari che intessono rapporti con gli imprenditori per trovare lavoro. Raccontano esperienze, manifestano anche amarezze, qualche delusione, qualche fatica, e pure “successi”, se così si può dire, vite di persone che cambiano. Anche quelle di chi aiuta gli altri. Lui ascolta. E questo è già un grande dono. Siamo amici, è incuriosito da noi, per questo è venuto a trovarci. E, dopo aver ascoltato tutti, dice: “Sono commosso dalla vostra opera, perché è tempo libero, non è dovuto, e già questo è un primo punto di stranezza bella, perché normalmente nel tempo libero uno si fa gli affari suoi.” E ride, pensando anche a sé stesso.

L’intervento di don Stefano Turi alla riunione dei volontari de La goccia di Lube

Gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire perché don Luigi Giussani, nel suo libretto Il senso della caritativa – che La goccia di Lube tiene come riferimento per l’attività di volontariato che propone a tutti, credenti e non – dopo aver parlato di quella “esigenza talmente naturale” che “quando si vedono altri che stanno peggio di noi ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro”… a un certo punto viene a parlare di Cristo e di come Egli ha saputo valorizzare questo afflato profondamente umano, comune a tutti, quasi completandolo. Nel suo testo infatti, Giussani afferma: “Ma Cristo ci ha fatto capire il perché profondo di tutto ciò, svelandoci la legge ultima dell’essere e della vita: la carità, condividere l’essere degli altri. Tutta la parola carità riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio si è fatto misero come noi, ha ‘condiviso’ la nostra nullità.

Don Stefano va subito al sodo. E parla per esempi. Racconta di un suo incontro con un uomo che era stato in carcere per trent’anni. I due sono nel confessionale: “Sentiva il desiderio di confessarsi”, dice don Stefano, “perché il male aveva avuto dei giri strani. Dietro di me avevo il crocifisso, ma noto che per tutto il tempo tiene il volto abbassato. Mi dice: padre, non riesco a guardare il crocifisso, perché ne ho fatte talmente tante che non sono degno di quello sguardo. Io gli rispondo: questo è un problema falso perché Lui è venuto proprio per me, per te. Questo qua, gli indico il crocifisso, è morto per te e me, ha preso su di sé tutte le tue e le mie schifezze e ha dato a esse un nuovo volto, per cui quelle ferite che tu hai con Lui possono diventare feritoie, un luogo dove può entrare la luce Sua. Poi gli ho fatto l’esempio che Gesù non si era scelto come apostoli i migliori, i moralmente più sani. Si è messo a piangere, gli ho dato l’assoluzione ed è andato via. Ecco, io dico che questa esperienza che quell’uomo, quel giorno, ha avuto con me la può vivere con voi anche la gente che seguite. Lo sguardo che date loro è una possibilità che hanno di non identificare più la loro vita con lo sbaglio, perché siamo tutti portati a essere così. A un certo punto gli ho detto: guarda che anch’io sono in carcere, non quello delle Vallette, ma anch’io sono pieno di schiavitù…”

E poi parla del perdono. Don Stefano ha ascoltato l’esperienza di una volontaria e racconta di quello che vive lui nell’impegno a soddisfare il bisogno degli altri nella sua parrocchia. Quante delusioni, spesso: non vanno agli appuntamenti presi, non mantengono gli impegni sul lavoro che gli è stato trovato…E annota: “Il dispiacere nasce dalla consapevolezza che queste persone forse non si vogliono bene, non sono capaci di volersi bene, perché forse non l’hanno mai provato, ma non mi permetto di giudicare, io giudico solo l’azione: perché hai un’opportunità grande e la sprechi? Eppure, poi queste stesse persone tornano a bussare alla porta: è lì la sfida, come fai a stare davanti a loro e a non far prevalere la rabbia? Allora, io penso a quante volte il Signore mi perdona e mi ha perdonato. E penso: se Tu, Signore, mi concedi questo perdono qui… se io fossi al posto di questa persona, che cosa vorrei quando cerco aiuto?”

Don Stefano va a fondo sui motivi per cui si accompagnano delle persone che hanno bisogno di aiuto e sbalordisce tutti quando legge un brano del Vangelo dove Gesù dice che occorre sentirsi “servi inutili”. “E’ una roba rivoluzionaria, quasi da matti”, commenta. Ma ne rivela una prima conseguenza: “Il termine ‘inutile’ in greco significa senza utilità a livello monetario. Vuole dire che il tuo fare del bene non ha alcun diritto, perché gli schiavi non avevano diritti una volta: tu non hai diritto neanche a un grazie. Questa è la sfida che Gesù lancia, perché se tu poni il tuo motivo nella riuscita, che l’altro viene all’appuntamento fissato, che gli trovi lavoro… nel tempo c’è il rischio che ti stufi. Io ricordo uno che aveva messo su una cooperativa per giovani difficili: faceva il doposcuola e altro ancora, ma dopo quindici anni ha chiuso la cooperativa. Perché l’hai chiusa? gli avevo domandato. Risposta: Perché i ragazzi non cambiano. Cosa che era anche vera. Però quella decisione di chiudere aveva mostrato una motivazione di fondo: ‘cambiare l’altro’. Questa è la mentalità di oggi: se l’altro non cambia, che si arrangi e io mi faccio gli affari miei. Allora, dico che la carità è una sfida anche culturale, perché il mondo di oggi non ragiona più così. Il mondo di oggi è calcolatore. Io ti aiuto se… Invece, io ti aiuto perché non posso non farlo. Ho ricevuto così tanto dalla vita che non riesco a tenerlo per me, quello che ho ricevuto. Quindi l’aiuto non è per colmare un vuoto, perché è molto pericoloso questo, perché l’altro scompare, ci sei solo tu. Il tuo fare, invece, è per gridare un ‘pieno’, parte da una certezza che tu sei già amato, per cui se tu non calcoli ti può dare anche fastidio il comportamento dell’altro e puoi pure arrabbiarti, ma quel rifiuto, quel diniego, non determina la tua motivazione.”

Il giovane parroco però non si nasconde dietro a un dito e ammette: sovvenire al bisogno degli altri a volte è scomodo, eppure, se accettato, anche quando costa, questo ‘scomodo’ può nascondere una possibilità di novità. “Quando prendo sul serio il bisogno dell’altro scopro anche qualcosa di nuovo in me. Io credo che il vostro stare qui sia proprio uno scoprire qualcosa di nuovo in voi che normalmente si dimentica. Ad esempio la capacità di essere gratuiti. A volte nemmeno in famiglia ce l’abbiamo questa capacità, perché in famiglia conosciamo tutto, vogliamo gestire sempre tutto. Io scopro che la caritativa sia prima che un fare una possibilità di conoscere qualcosa di nuovo in noi. Io questo l’ho capito una volta che mi era capitato di occuparmi di una donna affetta da problemi psichici e di depressione. Mi ero domandato: perché pensa sempre alla sua depressione? Allora, le avevo proposto di andare a lavorare agli orti sociali. Lei era nata in campagna, poteva piacerle. Un giorno, tornando da quel lavoro mi dice: grazie a questo lavoro ho scoperto in me qualcosa che credevo fosse morto. Aveva riscoperto la capacità di donarsi, di fare bene una cosa. Aveva scoperto che la vita era più grande della sua depressione, cioè che la depressione non la definiva più come persona. Specularmente, mi sento di dire che fare la caritativa più che risolvere i problemi degli altri – perché a volte non li risolviamo – è un gesto che fa bene a noi che la facciamo. E non è egoismo, questo, perché se io sto bene, sta bene anche chi è a fianco a me.”

Un momento dei colloqui tra volontari e le persone che La goccia di Lube prende in carico

Don Stefano parla infine dei giovani. La goccia di Lube è a contatto con alcuni di loro che hanno compiuto reati. E’ un mondo completamente diverso da quello degli adulti. “I giovani di oggi sono veramente problematici” dice ” ma loro lo sanno e non lo nascondono. Quand’ero giovane io c’erano i problemi, certo, ma si faceva finta che andasse tutto bene. Loro in questo sono molto più veri di noi, e te lo dicono, lo fanno sapere, persino con la violenza o con tutto il resto, eppure questo mi colpisce: sono veri. Di conseguenza i ragazzi capiscono se tu sei vero o no. Mi colpisce che ascoltino non quando gli fai la predica, ma quando incominci a raccontargli come hai superato le tue fatiche. Gli dici: guarda che io sono come te, io ho 20 anni più di te, quindi ho sbagliato più di te e prima di te, quindi ti posso dire come quella ferita è stata o guarita o almeno curata. Questo ti rende autorevole davanti a loro perché non ti fa sentire uno che parla della cattedra del perfetto, ma ti fa sentire uno del popolo che ha sbagliato più di loro, ma che ha fatto un incontro che vorresti facessero anche loro. Però questo non dipende da noi.”

***

In apertura di incontro abbiamo cantato La canzone della Bassa. Una canzone allegra, quasi infantile nella sua spensieratezza, che presenta meglio di qualunque altra canzone seriosa la gioia della caritativa. Era stata composta più di sessant’anni fa e la cantavano gli studenti che nel fine settimana andavano a trovare i bambini e le famiglie povere della Bassa milanese. Erano felici nel fare quel gesto, si sentivano grandi e realizzati, perché vi cercavano quel “qualcosa, qualcosa per la vita, che non diventi mai arrugginita”. E lo trovavano.

Ecco qui di seguito il testo. E’ una delle canzoni della nostra caritativa. A noi basta cambiare due parole: al posto della “Bassa” possiamo mettere “Distretto Barolo”, dove ci riuniamo; al posto di “quei bambini” possiamo mettere i nostri amici detenuti domiciliari o in affidamento. Ed è tutto uguale… alla fine chi fa la caritativa può sperimentare di aver spalancato la finestra della propria vita.

In Bassa io vado, io vado allegramente
e sono più felice di un grande presidente,
e quando mi trovo insieme a quei bambini
mi sento più grande di Puccini.

La la la…

In Bassa io cerco, io cerco qualche cosa;
non bastano i soldi non basta la morosa.
io cerco qualcosa, qualcosa per la vita
che non diventi mai arrugginita.

La la la…

In Bassa io trovo, io trovo un cuore nuovo,
e allora verso gli altri leggero spicco il volo,
la mia giornata è tutta una gran festa:
spalanco sempre più la mia finestra.

La la la…

Allora in Bassa ritorno allegramente,
l’umanità rinasce in me più dolcemente
e posso iniziar a giocar la mia partita:
è inutile sfogliar la margherita.

La la la…

Adriano Moraglio

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