Parrocchia di Sant’Alfonso

Reportage da Sant’Alfonso 22 gennaio 2021

Ho appuntamento con Lino alle 10. Sono in anticipo, mi guardo intorno, scatto due foto alla chiesa, alle case del quartiere: molte sono affrescate da murales. Siamo all’ingresso del Borgo Vecchio Campidoglio che – lo scopro oggi – è diventato sede del MAU, il Museo d’Arte Urbana di Torino, primo museo di arte contemporanea all’aperto in un centro urbano d’Italia. Si tratta di un’incredibile esposizione a cielo aperto che ospita oltre 170 opere, realizzate da numerosi artisti che hanno voluto lasciare la propria impronta sui muri. Siamo di fronte all’ospedale Maria Vittoria, non c’è molto traffico, passano poche persone con le buste della spesa. Da via Netro, dove è situato l’ingresso della mensa di Sant’Alfonso arrivano in ordine sparso uomini e donne con borsoni di plastica – quelli dei supermercati –. Alcuni con la testa bassa attraversano la piazzetta senza fermarsi, altri fanno una sosta sulle panchine: c’è chi consuma la colazione e chi dice due parole scambiando i cibi appena ritirati in via Netro. Arriva Lino e insieme raggiungiamo l’ingresso a una parte del cortile della parrocchia, adibita a mensa sin dagli anni ‘50. Oggi in tempi di Covid la mensa è chiusa, ma Enzo, il diacono responsabile, ha organizzato un servizio di distribuzione di pacchi alimentari.

Ci accoglie all’interno dei locali dove sono stipate le scorte e incontriamo i volontari che distribuiscono i sacchetti. Gli assistiti arrivano in ordine sparso, mantengono le distanze, hanno la mascherine. Tutti salutano Enzo e lui ha un saluto per tutti. Lui parla volentieri, senza enfasi, con pacatezza, dice che gli aiuti vengono dal Comune, da negozianti del quartiere e da noi. Molti assistiti sono senza dimora, per la maggior parte rumeni e marocchini. I pacchi vanno anche a tanti italiani, una parte giovani, che arrivano infagottati per non farsi riconoscere; si vergognano. Enzo ci racconta di un ragazzo che lavorava a tempo determinato in un bar: era riuscito a comprarsi un piccolo appartamento e adesso, col Covid, ha perso il lavoro ed è costretto a chiedere aiuto alla parrocchia. Enzo ci dice anche dei suoi giri notturni per le strade e i portici di Torino, dove incontra uomini con storie di vita senza speranza, a cui ti devi rassegnare a portare solo qualcosa di caldo e parole buone. Confessa di essere stanco e lo posso capire: sono stanca io che per un’ora sono stata in piedi al freddo ad ascoltarlo e non vedo l’ora di ritornare a casa, al caldo. Dice di essere stanco ma non lo dà a vedere. Tutte le mattine con i suoi volontari – pochi in questi tempi cupi di Covid – accoglie più di 100 persone, al freddo sotto un tendone. Ci porta a visitare i magazzini, prende in mano un pane tipico del sud e il suo sguardo si illumina mentre commenta: “questo è un ottimo pane, ce lo porta un panettiere di Corso Svizzera”. E continua: “Qui ci sono i pelati; questi li compriamo con i vostri soldi, sono ottimi. Due volte alla settimana distribuiamo il tonno, i marocchini lo apprezzano. Distribuiamo carni bianche. Vedi questi vasetti di giardiniera? Alcuni sciacquano la verdura e la passano in padella. Abbiamo tanto e diamo tanto. Stiamo molto attenti alle scadenze e spesso collaboriamo con i vicini della San Vincenzo, con le suore di Corso Francia. L’olio, per esempio, i senza tetto rumeni che sono accampati vicino alle Nuove lo usano volentieri, si sono dotati di padelle e cucinano”. Chiedo a Enzo se organizzano altre cose oltre la distribuzione di alimenti. Lui mi guarda negli occhi da sopra la mascherina e mi dice: ”hanno bisogno di essere ascoltati e noi cerchiamo di farlo”. Mentre ci accompagna all’ingresso, incontriamo altri ospiti e lui ci racconta che l’ultimo della fila ha due fratelli pizzaioli che non lo aiutano, e una ex moglie che lo ha cacciato di casa; dei fratelli è il meno capace e così deve ricorrere alla mensa dei poveri. Squilla il cellulare e alla fine della chiamata ci racconta che una signora molto abbiente ha tanti tappeti da regalare, e lui ha pensato di prenderli per la comunità degli egiziani copti, che potrebbero usarli per pregare. La mia impressione è di aver visitato un luogo dove convivono professionalità, attenzione – di questi tempi è tutto più difficile – e improvvisazione. A volte bisogna saper cogliere al volo una opportunità: per esempio, far incontrare un giovane e bravo giardiniere disoccupato con il proprietario di una villa in collina, e così via. Anche se non tutto fila sempre liscio: nei momenti di maggiore affluenza – fino a 300 persone – alcuni abitanti di via Netro hanno protestato e chiamato le forze dell’ordine per gli inevitabili assembramenti davanti all’ingresso. Enzo non vede l’ora di poter riaprire la mensa e ricorda con nostalgia gli spaghetti al sugo che condivideva, dopo il lavoro di distribuzione, con il folto gruppo di volontari. Ci racconta che la mensa era stata aperta negli anni 50, quando a frequentarla erano gli immigrati dal meridione d’Italia. E’ così: ai poveri si sostituiscono altri poveri, vengono da altri paesi. Del resto l’Argentina è metà italiana, in Brasile Bolsonaro ha radici italiane e la moglie di Biden lo stesso. Ora è tempo di andare, ma tornerò con Roberta a fare qualche fotografia per il sito. Saremo ben accolti, ne sono sicura.

Denise