La Guida – Piergiuseppe Bernardi

LO SCONTRO TRA MORTE E VITA NEGLI AFFRESCHI DELL’ABBAZIA DI CASANOVA A CARMAGNOLA

Il potente affiorare della speranza in una futura risurrezione nel meditabondo riflettere di due scheletri sull’umana fragilità

Da “La Guida” del 26 novembre 2020

L’antica abbazia di Casanova, fondata nel 1137 dall’ordine cistercense nei pressi dell’attuale Carmagnola, fu fatta oggetto tra il 1680 e il 1695 di una profonda trasformazione animata da quella sensibilità barocca che, da quel momento in poi, avrebbe interessato in terra sabauda molti edifici sacri. E fu proprio nel corso di questo adeguamento di una chiesa abbaziale ormai fatiscente che a subire una profonda modifica dovette essere anche la cripta della chiesa stessa, adibita a «nuovo cimiterio» nel quale da allora in poi gli stessi monaci dell’abbazia avrebbero trovato riposo (Fig. 1).

A realizzarne la decorazione l’abate Innocenzo Milliavacca chiamò il giovane artista Domenico Guidobono, il cui ben più noto fratello Bartolomeo era invece contemporaneamente impegnato a dipingere, sulla volta absidale della stessa chiesa, l’affresco dell’ ”Incoronazione della Vergine”. Ed è probabilmente a questo soggetto pensato come il culmine delle tele del ciclo sulla “Vita di Maria” messe a punto da Federico Cervelli, che l’affresco sepolcrale di Domenico Guidobono  sembra quasi fare da contrappunto.

Mentre infatti “L’incoronazione della Vergine” intende rappresentare il momento del riconoscimento di Maria quale “Regina degli angeli e dei santi” in paradiso, e dunque l’esito luminosissimo del suo aver accettato di diventare la Madre di Dio, ben diverso è l’intento del soggetto individuato da Domenico Guidobono nel 1688 per la cripta cimiteriale dell’abbazia: il “Compianto sul Cristo morto” (Fig. 2). Questo soggetto, non a caso insorto nel XIV secolo e divenuto centrale in quel Rinascimento il cui fulcro è costituito da una graduale presa di coscienza della centralità dell’uomo, tenta di esprimere il cuore stesso dell’autentica umanità di Cristo proclamata dal cristianesimo insieme alla sua autentica divinità. Ad essere rappresentato in questo soggetto è infatti qualcosa in più del morire in croce di Cristo stesso: il suo essere cioè divenuto, condividendo con l’uomo il suo ultimo destino, prigioniero delle spire asfittiche della morte. Uomo tra gli uomini e morto tra i morti, egli può solo essere avvolto, in questo devastante momento nel quale l’ultimo nemico sembra averlo definitivamente sconfitto, dal dolore immane della madre che ne tiene tra le braccia il corpo ormai privo di vita. Il “Compianto” del Guidobono, frutto più di una capacità di adattamento che di una creatività autentica, è l’evidente ripresa del medesimo soggetto dipinto su tela più di un secolo e mezzo prima dal Correggio.

Proprio questo soggetto, che quasi certamente il fratello Bartolomeo aveva avuto modo di vedere nella Chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma, appare destinato a trasformarsi nel fulcro stesso di questa cripta. A risultare sottolineata dalla sua collocazione, peraltro in una prospettiva del tutto in linea con il cimitero di cui doveva fungere da decorazione, è dunque la prigionia in cui la morte ha attanagliato il corpo di Cristo. A una lettura di questo genere sembrano infatti orientare sia l’imponente teschio che, sovrastando la scena fino a dominarla, la pervade dell’aura mortifera che da esso promana, sia il materializzarsi ai due lati dell’affresco di due singolari scheletri che, posata la loro implacabile falce e seduti su una specie di balconata, sembrano curiosamente intenti a meditare sull’umana fragilità.

Il vuoto sguardo dello scheletro di sinistra (Fig. 3) appare concentrato sul compasso e sull’astrolabio che egli tiene tra le mani. Strumenti finalizzati entrambi alla misurazione, essi sembrano voler simboleggiare lo spazio, piccolo o grande, in cui ogni uomo vivela sua vita. Proprio quello spazio di cui il cartiglio posto al di sopra dello scheletro, citando il libro di Giobbe, afferma: «Qui abiterò finché non giunga il cambiamento che mi attende». A richiamare l’attenzione dell’assorto scheletro di destra (fig. 4) è invece una clessidra la cui sabbia, ormai sul punto di esaurirsi, allude in modo piuttosto evidente allo scorrere del tempo che da millenni viene misurato con questo strumento. Ed è proprio l’inesorabilità di questo sempre troppo repentino scorrere ad essere richiamato, nel cartiglio sovrastante lo scheletro, dalle parole tratte anch’esse da un passo del libro di Giobbe: «I miei giorni vengono abbreviandosi e non mi resta che il sepolcro».

Richiamati al qui e ora del precario attraversare da uomini la storia, oltre che avvolti da una prospettiva di morte richiamata con forza dal “Compianto” come destino inevitabile, sarà ancora possibile pensare all’ “oltre” della resurrezione? A imprimere solidità a questo “oltre” è tuttavia il cartiglio che, quasi contrastando il gelido soffio della morte emanato dal teschio sovrastante il “Compianto”, proclama invece con forza le parole del Vangelo di Giovanni: «Chi vive e crede in me non morirà in eterno».

Ad affiorare dal cupo contesto di morte di questa pur suggestiva cripta è dunque proprio la speranza cristiana nella risurrezione. Una speranza che esplode nei colori vivaci degli angeli (Fig. 5) dipinti sull’antistante volta e nello squillante suono delle trombe con cui essi, dopo aver chiamato a raccolta i morti dai quattro angoli del mondo e aver restituito loro la vita perduta con un semplice soffio di vento, sulla falsariga delle parole del profeta Ezechiele, li invitano a presentarsi tempestivamente all’atteso e temuto giudizio di Dio. Giudizio che, per coloro che verranno ritenuti giusti, rappresenterà non soltanto lo scampo da inenarrabili tormenti, ma anche e soprattutto il ritorno ad una vita la cui stessa pienezza è umanamente inimmaginabile.

Piergiuseppe Bernardi

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