LAVORARE PER VIVERE O VIVERE PER LAVORARE ?
Le riflessioni dell’autore di questo articolo toccano diversi temi, ma abbiamo voluto sottolineare che nel mondo del lavoro, oltre che fattori economici, esistono risvolti psicologici da non sottovalutare. Ci è piaciuta anche la conclusione, che vede nel settore non profit (quello di Risorsa) che ha una visione solidaristica e umanitaria
Fonte: www.ilsussidiario.net –articolo di Giorgio Vittadini – 28/01/2022
Link all’articolo completo: https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2022/1/28/lavorare-per-vivere-o-vivere-per-lavorare/2283844/
Sintesi a cura della redazione Risorsa
È proprio vero, come tanti esempi sembrano mostrare, che un sistema in cui i lavoratori sono sotto pressione è più competitivo?. Se c’è un punto di rottura nel “paradigma tecnocratico” che domina le economie occidentali, un ambito in cui gli esseri umani hanno bisogno di ricominciare a guardarsi in faccia, guardarsi dentro, trattarsi in modo umano, è il lavoro. Molti aspetti riscontrabili anche in Italia lo mettono in luce. Innanzitutto per diminuire i costi ed essere competitivi, spesso la via scelta è quella di aumentare la pressione sul personale. Non è un fenomeno che riguarda i settori in crisi, o qualche comparto, ma un trend generale in atto da tempo. Una funzionaria di banca, stimata e alle prese con un mestiere che le piace, per cui ha studiato e per il quale riceve un adeguato compenso sembra una di quei giovani che ha trovato il suo posto nel mondo del lavoro. Poi scopri che esce di casa alle 5 del mattino, rientra alle 20 e spesso, dopo cena, deve rimettere la testa sul lavoro. Inutile precisare che anche i ritmi in ufficio sono stressanti. Se questa può essere un’eccezione, non lo sono i giovani avvocati, gli architetti, i dipendenti di società di consulenza che lavorano fino alle 23 senza vedere l’ombra di uno straordinario pagato. Sembra che l’orario di lavoro debba estendersi, soprattutto per i giovani, in modo infinito riducendo al minimo il tempo per la vita personale e familiare. L’atteggiamento verso le donne che vogliano sposarsi e avere figli è un altro aspetto di questa disumanizzazione del lavoro. Un’amica stava per firmare un contratto a tempo indeterminato con un’azienda, ma quando ha riferito che si sarebbe sposata, la ditta ha bloccato l’assunzione. Un’altra amica dipendente di una banca è incappata nel mobbing morbido: tornata dopo la maternità è stata messa in un angolo escludendola dai progetti che prima seguiva. Non è un’eccezione ma quasi una regola. Da questi primi aspetti sembra che per molte aziende il lavoratore non debba avere legami fuori dall’azienda, relazioni stabili, figli, attività sociale, culturale, ricreativa. Tutto è giustificato con la concorrenza, ma è proprio vero che un sistema in cui i lavoratori sono sotto pressione è più competitivo? C’è da dubitarne pensando ad esempio all’aumento di contratti terminati a causa di dimissioni del dipendente, ormai fenomeno mondiale. In Italia sono 484mila le interruzioni del rapporto di lavoro registrate tra aprile e giugno 2021 (+37% rispetto al trimestre precedente). Secondo Jonathan Malesic, autore di “The end of burnout”, in sintesi, si sta facendo strada il desiderio di lavorare meno, anche guadagnando meno, per vivere meglio. Quello che per molti è una costrizione, per tanti sta diventando una scelta. Il fenomeno delle “grandi dimissioni” che la pandemia ha accelerato, dice che anche buoni stipendi, convenienti contratti e luminose prospettive di carriera, hanno in qualche modo impedito a tanti di vivere il lavoro come uno strumento di realizzazione personale, oltre che sociale. Un altro aspetto riguarda la disuguaglianza tra classi sociali, quando è spiccata, minaccia il sentimento di identità e cammino condivisi, intacca la fiducia, che è il fondamentale collante della società. Infine un terzo aspetto è la grande divisione nel mondo tra chi lavora garantito, con tanto privilegi ottenuti negli anni delle vacche grasse, e i giovani che tra stage sottopagati, contratti a tempo determinato, lavorano per anni in situazioni di precariato assoluto e impossibilità a costruirsi una vita stabile. In questa luce la sostenuta crescita del Pil italiano di questi mesi potrebbe rappresentare una svolta nell’aumento dei posti di lavoro. In realtà, pare che porterà con sé solo un coinvolgimento maggiore di coloro che già lavorano, e che sono stati impiegati in modo non continuativo o parziale. È proprio vero che sia impossibile garantire una crescita in cui le persone, nell’integralità della loro vita, siano considerate una risorsa?
Forse un suggerimento al mondo profit può venire da un settore che ha un comportamento anticiclico e continua a crescere, il non profit. Questo dato viene spiegato dagli esperti con il fatto che esso segue una logica diversa da quella del settore profit, una logica che è solidaristica e comunitaria.