VADO VIA, NON FELICE…MA VADO VIA
Raccontare esperienze di lavoro, anche negative, in maniera anonima, (whistleblowing) fa parte di un nuovo modo di concepire i rapporti di lavoro, che la rivista Senza Filtro promuove e con cui, come Risorsa, concordiamo perché attinente alla nostra “vision“”: creare un mondo del lavoro più giusto e rispettoso della dignità di tutti. Peccato che per trovarlo spesso occorre…andare via dall’azienda per cui si è lavorato e a cui si è dato molto, anche in posizioni di alta professionalità. Tra le tante lettere pervenute alla redazione di Senzafiltro, ne abbiamo scela una, quella di Silvia (nome di fantasia) che riproduciamo integralmente
Fonte: http://www.informazionesenzafiltro.it
Link: https://www.informazionesenzafiltro.it/tag/whistleblowing-2
La lettera così inzia: “Non c’è coerenza fra come le aziende si promuovono su Linkedin e cme operano davvero“:
Seguo da qualche mese la vostra attività e vi scrivo per segnalare la grande distanza che c’è oggi in Italia tra la comunicazione di auto promozione che le aziende fanno su Linkedin e il clima che realmente c’è all’interno, almeno per quello che riguarda il mio caso. Il mio tempo di permanenza nell’ultima azienda è stato di 6 anni – lungo, per la media del posto.
Il problema che affrontavo ogni giorno era il costante clima di urgenza, accompagnato alla totale assenza di programmazione e pianificazione del lavoro. I processi di delega, l’organigramma, l’assetto aziendale, l’assegnazione delle competenze avevano una variabilità sorprendente, spesso non comunicata a chi svolgeva un ruolo operativo. Non erano previsti percorsi di crescita interni, così come non c’erano canali d’ascolto e di gestione dei conflitti interni. La difficoltà maggiore che ho incontrato è stata di clima, o relazionale – ed è la cosa che mi ha turbata di più: non c’erano canali d’ascolto o di gestione del conflitto – o meglio quelli che c’erano erano puramente a scopo manipolatorio contro chi riportava una difficoltà lavorativa, sollevava un feedback sulla fattibilità o proponeva un metodo di lavoro alternativo o una strutturazione di processo, un’allocazione di risorse. Se sollevavi obiezioni eri polemico, non collaborativo, non eri capace di fare quello che stavi facendo. Così in molti finivano per non sollevare più nessuna questione. Quelli che col tempo si facevano silenziosi erano quelli etichettati come non collaborativi. Si faceva quello che decideva il capo, se era disfunzionale si finiva il lavoro, si andava a sbattere contro un muro e poi si ricominciava da capo: i tempi di consegna finali non venivano ovviamente riprogrammati, neanche se bisognava ricominciare più di una volta, all’interno di un ritmo di per sé già molto alto. La rete di collaborazione interna era del tutto insufficiente, tutti propendevano per una parola in meno piuttosto che una in più, moltissime lamentele sottocoperta, un silenzio di piombo e una pesante diffidenza reciproca in superficie – o i classici argomenti rifugio: le chiacchiere sulla famiglia, i bambini, le vacanze. A casa mi hanno insegnato a chiamarla ipocrisia – ma del resto io avevo guadagnato l’etichetta della persona polemica. Si comunicava solo a voce, o via chat, meglio con i vocali, così non restavano tracce.
Lo sport preferito era la caccia al colpevole: una scenata al capro espiatorio risolveva ogni problema. In quest’ultima azienda il mio sforzo costante è stato quello di costituire un gruppo inclusivo, paritario, basato sulla fiducia reciproca che lavorasse in maniera trasparente e affidabile. Per un po’ ci sono anche riuscita. Ma forse uno scoglio davvero non può arginare il mare. Anche la stanchezza ha fatto la sua parte. Quest’esperienza mi ha regalato un disturbo da stress post-traumatico sotto la soglia della cronicizzazione.La situazione è sottile, perché non passavo una eccedenza di ore in azienda e avevo un contratto regolare. Mi sono accorta che ci sono delle situazioni in cui questi fattori non bastano: forse è da considerare con accuratezza cosa succede nelle 40 ore settimanali che uno passa in azienda. In questi mesi quello che leggevo sui canali social dell’azienda da cui sono uscita (Linkedin) era una martellante comunicazione su quanto ci tenessero alla salute delle persone, su quanto fosse importante il gruppo, l’inclusività, la professionalità, il valore da dare alle persone. Excusatio non petita accusatio manifesta, avrebbero detto secoli fa. Ma adesso il latino non lo conosce più nessuno, bisogna essere veloci, smart – bisogna cambiare tutto (perché niente cambi?). Altro aspetto della comunicazione aziendale che trovo spessissimo sono i ritornelli sulle soft skills: bisogna essere collaborativi, saper delegare, essere flessibili, sapersi adattare, saper negoziare, essere assertivi, essere resilienti – con un sacco di guru pronti a insegnartelo. Insomma se le cose non vanno bene dev’essere per forza colpa tua. Va bene, ma in quale scenario? E davvero l’essere in questo modo può risolvere le mancanze di un clima aziendale non accudito, non curato a monte? Altra riflessione: se tutte queste qualità ci si aspetta che vengano agite dal basso, la prospettiva può essere semplicemente quella di trovare lavoratori a cui basti semplicemente stare zitti in cambio di uno stipendio da portarsi a casa? Insomma: a furia di sviluppare soft skills – ormai quando ci prendono in giro è davvero facile che ce ne accorgiamo.
Mi resta un grosso punto interrogativo sui tanti lavoratori che si caricano sulla schiena un compromesso così pesante sul piano del riconoscimento della propria professionalità, dell’essere soggetti che agiscono il proprio lavoro, oltre che risorse operative. Questa coscienza del nostro lavoro, la stiamo perdendo, la stiamo schiacciando aspettando che muoia il nervo che causa il dolore, è una coscienza che non ci parla più? Ci penso spesso. Ora ho 41 anni, mi sto formando per fare altro, sono una donna, non sono alta, non porto i tacchi: in Italia non è una combinazione promettente ma nel mio lavoro il cambiamento è una costante e la capacità d’impegnarmi mi ha sempre fatto superare gli ostacoli. Io sto andando da un’altra parte, fortunatamente. Ma le medie aziende italiane, dove stanno andando? E se una direzione ormai c’è, la stanno perseguendo davvero?
Grazie per l’occasione che mi avete dato – o che mi sono presa – di raccontare questa storia piccola. Spero di non essermi dilungata fino a perdervi. Buon lavoro!