COME COMPORTARSI CON UN CAPO ARROGANTE
Riproduciamo integralmente questo articolo poiché mette molto bene in evidenza come gli aspetti legali del mobbing possano sfociare in un risarcimento (ma attenti all’onere della prova che ricade sul dipendente), ma si debba tener conto anche degli atteggiamenti psicologici, sia da parte del dipendente ma anche del datore di lavoro
Fonte: laleggepertutti.it – articolo del 18/11/2021
Link all’articolo completo: https://www.laleggepertutti.it/532271_come-comportarsi-con-un-capo-arrogante
Commenti a cura della redazione Risorsa
Offese, minacce, vessazioni, rimproveri ed atteggiamenti violenti del datore di lavoro: come difendersi?
Uno dei più ricorrenti problemi negli ambienti di lavoro è la gestione del rapporto dipendente-datore. Un rapporto complicato perché, da un lato, c’è l’arroganza di chi ritiene che, nel potere di comandare, sia compreso anche quello di offendere; dall’altro c’è spesso un eccessivo amor proprio, misto ad orgoglio, che fa mal digerire al lavoratore qualsiasi direttiva impartitagli in modo serio e diretto.
Il più delle volte, la conflittualità si consuma a voce: non lascia tracce scritte o prove testimoniali. Peraltro, rientra nelle sanzioni disciplinari la possibilità di infliggere rimproveri verbali. Tracciare pertanto la linea di confine tra il lecito e l’illecito diventa difficile. Ed allora come comportarsi con un capo arrogante?
Una conoscenza diretta del datore di lavoro consentirebbe certo di stabilire fin dove la causa della sua particolare condotta sia da imputare all’indole personale – riscontrabile pertanto anche nei confronti degli altri dipendenti – e dove invece c’è malafede (il cosiddetto dolo), ossia l’intenzione di nuocere. Proprio per questo non è possibile stabilire una regola generale su come comportarsi con un capo arrogante. Tuttavia, almeno sotto un profilo legale, è possibile fornire alcuni suggerimenti che potranno evitare passi falsi.
Capo arrogante: è mobbing?
Chiariamo subito che gli aspetti caratteriali, anche se spigolosi, non integrano mobbing. Il fatto che il datore di lavoro sia sempre nervoso, scontroso e poco gentile non implica alcuna possibilità di intentargli una causa per mobbing o straining. Per il mobbing è necessario un comportamento persecutore, costituito da una pluralità di atti, tutti rivolti a un unico fine: quello di isolare il dipendente, danneggiarlo psicologicamente, escluderlo dall’ambiente lavorativo, eventualmente provocandone le dimissioni. Lo straining è qualcosa in meno: non è necessaria la continuità degli atti e la volontà di emarginare il lavoratore, ma anch’esso presuppone una condotta dolosa il cui fine ultimo è quello di ledere la vittima. L’indole personale non è connotata da malafede. Tutt’al più si potrà parlare di una colpa che potrebbe comunque rilevare sotto l’aspetto risarcitorio. Vediamo come.
Quando l’ambiente lavorativo è insalubre
Pur in assenza di condotte dolose, il datore di lavoro è comunque tenuto a garantire la salute psicofisica dei propri dipendenti, un ambiente lavorativo sano e sereno. Sicché, anche le piccole vessazioni e gli improperi, le espressioni rabbiose e irriverenti, che non sfociano tuttavia in atteggiamenti mobbizzanti veri e propri possono essere causa di un risarcimento del danno. Il dipendente quindi potrebbe anche agire nei confronti del capo che usa in modo inappropriato la libertà di espressione e il proprio potere di direzione. Si pensi alle continue minacce di licenziamento e agli insulti. Attenzione però: il danno va sempre dimostrato e non è insito nella condotta illecita. Dimostrare che il datore di lavoro ha ecceduto con le parole non implica automaticamente un risarcimento. Ed è questo l’aspetto più complicato della difesa del lavoratore: l’onere della prova ricade su di lui e non può certo essere soddisfatto da una semplice registrazione.
Quando non si può far nulla contro il capo arrogante
Bisogna sempre ricordare due questioni assai importanti. Da un lato, il datore di lavoro ha il potere di organizzare e gestire la propria azienda come meglio crede. Neanche il giudice può intervenire sulle sue scelte stabilendo se queste sono ragionevoli o meno. Il capo ha il diritto di decidere e di sbagliare poiché affronta un rischio – quello economico – ed è giusto che di esso si assuma oneri e onori. Dall’altro lato, rientra nel potere del datore di lavoro quello di infliggere sanzioni disciplinari e, in particolare, i rimproveri. Il rimprovero verbale è la sanzione disciplinare più lieve che esista, non lascia tracce sul curriculum e, nello stesso tempo, non richiede l’adozione di un preventivo procedimento di contestazione. Il rimprovero finisce per essere la classica “sgridata” contro cui il dipendente deve solo chinare il capo laddove questa rispetti i limiti della continenza – deve cioè essere proporzionata al comportamento illecito – e del rispetto dell’altrui dignità. Il rimprovero non può quindi sconfinare nell’ingiuria, non può cioè ledere l’onore personale o professionale del dipendente ma deve essere rivolto a criticarne l’operato. Diversamente, anche in questo caso, si può chiedere il risarcimento del danno.
Si possono fare registrazioni sul lavoro?
Per dimostrare gli illeciti del datore di lavoro è consentito eccezionalmente di utilizzare il registratore video o audio. L’uso del file deve però essere rivolto unicamente a far valere i propri diritti in tribunale; sicché, non è possibile diffondere il file (ad esempio, con l’inoltro in chat o la pubblicazione su Internet). Così il dipendente potrebbe registrare una conversazione avuta con il capo o addirittura riprendere le proprie attività e le scene relative alle vessazioni. Altre prove possono essere costituite dalle testimonianze dei colleghi o dei clienti.