L’OBBLIGO DATORIALE DI SOTTRARRE IL LAVORATORE DA MANSIONI PREGIUDIZIEVOLI PER LA SALUTE
Se è stato correttamente affermato (da Cass. sez. un. n. 7755 del 7 agosto 1998 ) che il lavoratore menomato nello stato di salute e divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni contrattuali non può essere licenziato per il venir meno dell’interesse del datore di lavoro alla residua prestazione ma deve essere ricercata in azienda – senza tuttavia che ciò comporti aggravi organizzativi e tanto meno creazione di una nuova mansione – la possibilità di un reimpiego in mansioni più consone allo stato di salute che il lavoratore può proficuamente disimpegnare, senza pregiudizio per le sue minorate condizioni, non può non sussistere (peraltro, a monte) un dovere datoriale di “prevenire” il deterioramento psicofisico del lavoratore medesimo a causa delle mansioni svolte. Quello che si vuol dire è che – dato per scontato oramai che sussiste un dovere dell’azienda di sottrarre i lavoratori “collettivamente intesi” da mansioni o lavorazioni oggettivamente morbigene – a nostro avviso sussiste anche un diritto del “singolo lavoratore”, caratterizzato da una particolare conformazione organica e da una eventuale fragilità, ad esempio, dell’apparato cardiovascolare (soggetti ad ipertensione arteriosa, ecc.), dell’apparato osteoarticolare (scoliotici e simili), dell’apparato respiratorio (asmatici ed allergici, ecc.), dell’apparato neurologico (soggetti labili, ansiosi, depressi, ecc.) ad essere sottratto allo svolgimento di mansioni “soggettivamente” pregiudizievoli per la salute, da parte del datore di lavoro cui sia stata notificata e documentata (tramite probante certificazione sanitaria) la potenziale o effettiva dannosità delle mansioni assegnate. Il problema del “dovere” o “obbligo” datoriale di sottrarre da mansioni pregiudizievoli si sposta dai lavoratori intesi quale “collettività” al “singolo” prestatore di lavoro, giacché determinate mansioni o lavorazioni indifferenti per la collettività – e quindi non oggettivamente morbigene – possono risultare per quel “singolo lavoratore”, in ragione ed a causa della sua particolare conformazione o struttura organica. L’esistenza di tale dovere è desumibile – inequivocabilmente – dalla sussistenza in capo al datore di lavoro di un obbligo a contenuto amplissimo ed a connotazione “prevenzionale”, costituito dalla prescrizione dell’art. 2087 c.c. secondo cui “l’imprenditore è tenuto a adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“. Questo obbligo “prevenzionale” di salvaguardia della integrità psicofisica si salda e si rafforza con la necessaria lettura dell’art. 32 Cost. che afferma, quale obbligo dello Stato, quello della “tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività“. Non può, pertanto, che essere considerata oscurantista e superata quella giurisprudenza che afferma che: “nel caso in cui determinate mansioni o condizioni di lavoro, pur non essendo oggettivamente morbigene – ed essendo quindi esclusa una violazione degli obblighi gravanti ex art. 2087 c.c. sul datore di lavoro – siano pregiudizievoli per la salute di un determinato lavoratore, determinandone un ricorrente stato di malattia, il datore di lavoro, salva espressa previsione di legge o di contratto, non è tenuto ad adibire il dipendente ad altre mansioni. Conseguentemente è legittimo il licenziamento di quest’ultimo attuato dopo il superamento del periodo di conservazione del posto” . Queste decisioni – che oltre tutto appartengono, nella quasi totalità, al pregresso orientamento assertore dell’irrilevanza per il (ed indifferenza del) datore di lavoro nei confronti delle malattie determinanti impossibilità sopravvenuta parziale della prestazione, materia nella quale ha operato una svolta la già citata Cass. sez. un. n. 7755/1998, nel senso di asserire l’obbligo datoriale del reperimento di mansioni compatibili con lo stato di salute e di residua idoneità lavorativa del prestatore d’opera – non sono affatto condivisibili perché forniscono una lettura restrittiva dell’obbligo prevenzionale contenuto nell’art. 2087 c.c., escludendo che lo stesso possa riguardare il singolo (con le sue individuali fragilità e la sua particolare conformazione organica) e, per contro, riservando le misure di salvaguardia datoriali solo per la “collettività” dei lavoratori. Quanto andiamo dicendo non costituisce affatto una nostra opinione soggettiva, poiché le più recenti e migliori decisioni della Cassazione – che relegano le opposte opinioni sopra riferite nell’alveo di un orientamento superato o in via di superamento – affermano che: “E’ soggetto a responsabilità risarcitoria per violazione dell’art. 2087 c.c. il datore di lavoro che, consapevole dello stato di malattia del lavoratore, continui ad adibirlo a mansioni, che sebbene corrispondenti alla sua qualifica, siano suscettibili – per la loro natura e per lo specifico impegno (fisico e mentale) – di metterne in pericolo la salute. L’esigenza di tutelare in via privilegiata la salute del lavoratore alla stregua dell’art. 2087 c.c. e la doverosità di un’interpretazione del contratto di lavoro alla luce del principio di correttezza e buona fede, di cui all’art. 1375 c.c. – che funge da parametro di valutazione comparativa degli interessi sostanziali delle parti contrattuali – inducono a ritenere che il datore di lavoro debba adibire il lavoratore, affetto da infermità suscettibili di aggravamento a seguito dell’attività svolta, ad altre mansioni compatibili con la sua residua capacità lavorativa, sempre che ciò sia reso possibile dall’assetto organizzativo dell’impresa, che consenta un’agevole sostituzione con altro dipendente nei compiti più usuranti. Quando ciò non sia possibile, il datore di lavoro può far valere l’infermità del dipendente quale titolo legittimante il recesso ed addurre l’impossibilità della prestazione per inidoneità fisica – in applicazione del generale principio codicistico dettato dall’art. 1464 c.c. – configurandosi un giustificato motivo oggettivo di recesso per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, e restando in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute”. In questa decisione fondamentale, riguardante una fattispecie relativa ad un lavoratore, in età non più giovanile, colpito, in dipendenza da stress causato dall’impegno lavorativo e dalle condizioni di espletamento della prestazione – dipendenza o causalità accertata da consulenza tecnica d’ufficio – da infarto miocardico, la Cassazione ha asserito che l’art. 2087 c.c., che tutela, nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, il bene della salute psicofisica protetto dall’art. 32 Cost., fa si che, anche nel caso in cui la sopravvenuta inabilità non sia riconducibile ad infortunio sul lavoro (che postula la c.d. “causa violenta” che determini una brusca rottura dell’equilibrio organico e non un evento lesivo costituente l’effetto lento e progressivo di condizioni gravose di lavoro che abbiano minato gradualmente l’organismo del prestatore, come nella fattispecie esaminata), sorga a carico del datore di lavoro una responsabilità risarcitoria per c.d. “danno biologico”, nel caso in cui non provveda ad adibire il lavoratore (cioè a spostarlo) a mansioni più confacenti con il suo minorato stato di salute, tali da precludere un aggravamento della salute medesima. L’obbligo datoriale sussiste compatibilmente con la sussistenza di posizioni di lavoro confacenti in azienda per il lavoratore inabile – ivi inclusa la sostituzione nei compiti più usuranti con altro lavoratore più idoneo dal punto di vista dello stato salute – senza naturalmente che la stessa azienda sia costretta a creare per l’inabile una posizione non necessaria dal punto di vista organizzativo e produttivo. E la Suprema corte giunge, nella sopra riferita decisione, a queste conclusioni adducendo che “i principi di correttezza e di buona fede che devono presiedere all’esecuzione del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 1375 c.c., richiedono – in ossequio a quanto imposto dall’art. 2087 c.c. – che il datore di lavoro, a conoscenza di un’infermità del lavoratore incompatibile con le mansioni affidategli, deve mettere in atto tutte e misure a tutela dell’integrità psicofisica del suo dipendente, incorrendo conseguentemente in responsabilità per danni alla salute che il dipendente stesso abbia subito per essere stato indotto a continuare un’attività lavorativa che, per la sua natura e le concrete modalità di svolgimento, sia suscettibile di determinare un aggravamento delle sue già precarie condizioni di salute“. Nello stesso senso – cioè a dire per un obbligo prevenzionale mirato al “singolo lavoratore” – si è espressa, poi, una successiva decisione della Cassazione del 1 settembre 1997, n. 8267 secondo la quale: “In ottemperanza all’art. 41, comma 2°, Costituzione, secondo cui la libertà di iniziativa economica incontra l’imprescindibile limite di non arrecare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana, il datore di lavoro non può esimersi dall’adottare tutte le misure necessarie – compreso l’adeguamento dell’organico – volte ad assicurare livelli competitivi di produttività senza compromissione, tuttavia, dell’integrità psicofisica dei lavoratori soggetti al suo potere organizzativo e di dimensionamento della struttura aziendale. La regola consolidata nell’ambito dell’art. 2087 c.c. prescrive che l’attività di collaborazione cui l’imprenditore è tenuto in favore dei lavoratori, non si esaurisca nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge ma si estende alle altre iniziative o misure che appaiono utili per impedire il sorgere o il deterioramento di una situazione tale per cui lo svolgimento dell’attività lavorativa determini, con nesso di causalità, effetti patologici o traumatici nei lavoratori”. La fattispecie decisa atteneva ad un Capo Ufficio dell’Ente Autonomo Fiera del Levante di Bari, il quale – a causa della stressante attività cui aveva dovuto sottoporsi (per carenza di organico nell’Ufficio cui era preposto) al fine di fronteggiare il carico di lavoro del medesimo, attività che gli aveva comportato reiterata effettuazione di lavoro straordinario fino al limite (monte ore) annuo consentito contrattualmente delle 500 ore e rinuncia ai periodi di ferie annuali – era incorso in un infarto miocardico che la Consulenza Tecnica d’Ufficio aveva accertato essere causalmente conseguente allo stress accumulato, per il cui danno alla salute il lavoratore aveva richiesto il risarcimento del relativo danno biologico. Tale danno gli era stato poi riconosciuto in misura di 300 milioni dal Tribunale di Foggia in data 12 dicembre 1998 – che la Cassazione aveva designato come sede di rinvio – ma l’azienda aveva sollevato eccezioni (adducendo sia l’insussistenza di colpa datoriale per mancanza di un’imposizione al superlavoro attribuibile all’azienda sia di un concorso nel danno alla salute ad opera dell’abitudine del lavoratore di fumare 15 sigarette al giorno e della familiarità ipertensiva da parte materna). La Cassazione, di nuovo pronunciatasi con sentenza del 5 febbraio 2000, n. 1307, nel rigettare tutte le argomentazioni ed eccezioni aziendali, riconfermava i principi espressi da Cass. n. 8267 del 1 settembre 1997. Nello stesso orientamento si pone anche parte della giurisprudenza di merito, tra cui Pret. Roma 14 giugno 1988 secondo la quale : “le misure che l’imprenditore deve adottare ai sensi dell’art. 2087 c.c. devono essere individuate anche con riferimento a posizioni di singoli lavoratori dotate di tratti di peculiarità. Pertanto, nel caso in cui un lavoratore versi in una condizione patologica che ne determini una particolarissima vulnerabilità alla fatica, il datore di lavoro, in osservanza ai doveri di prudenza e diligenza di cui all’art. 2087 c.c., è tenuto ad attivarsi allo scopo di rintracciare un’adeguata collocazione al dipendente. La violazione di tale dovere determina per l’imprenditore un obbligo di risarcimento di danno, con riferimento non solo alla capacità produttiva di reddito del lavoratore, ma anche al c.d. danno biologico, inteso come menomazione dell’integrità psico-fisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul ‘valore uomo in tutta la sua dimensione’“. Va addizionalmente evidenziato che, qualora dall’omissione delle cautele e misure prevenzionali discendenti dall’art. 2087 c.c. (a tutela dell’integrità psico/fisica e della personalità morale ), discenda a carico del lavoratore un infortunio od una malattia professionale (o comunque un tangibile pregiudizio all’integrità della salute), la giurisprudenza è pacificamente consolidata per l’automatica ricorrenza del reato di “lesioni colpose”, asserendo che: “l’accertamento che l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale sono stati determinati da negligenza o inosservanza delle disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c., implica l’affermazione dell’esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del reato di lesioni colpose” ex artt. 590 e 583 c.p. Il principio era stato in precedenza affermato dalla Cassazione secondo la quale: “in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro (e delle malattie professionali, n.d.r.) il disposto dell’art. 2087 c.c. ha carattere generale e non contrattuale come si desume dallo stesso titolo (tutela delle condizioni di lavoro) nonché dal suo particolare contenuto normativo, per cui, quantunque la predetta norma sia inserita nel codice civile, essa pone specifici doveri di comportamento antinfortunistico a carico del titolare dell’impresa, la cui effettiva inosservanza integra il delitto di cui al 2° comma, art.590 c.p.“, riscontrabile e procedibile d’ufficio, come ha riconosciuto Cass. 20 aprile 1998, n. 4012. Ed ancora la Cassazione in una antecedente sentenza ha sostenuto: “in tema di misure antinfortunistiche (e a tutela delle malattie professionali, n.d.r.) l’art. 2087 c.c., laddove impone all’imprenditore l’adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, determina un obbligo di comportamento che trova la sua fonte nella Costituzione (…). Ne consegue che la violazione del prefato obbligo da parte dei destinatari della normativa a tutela dei lavoratori integra il precetto penale ogniqualvolta ne derivi un danno agli addetti“, con diritto per quest’ultimi – dal lato civilistico – al risarcimento del danno biologico e del danno morale (riconducibile ex art. 2059 c.c., a reato), come ha recentemente sancito la già citata Cass. n. 4012 del 20 aprile 1998. Le riflessioni che abbiamo sviluppato e l’orientamento che si sta imponendo – nel senso dell’obbligo datoriale di spostamento del lavoratore da mansioni e lavorazioni “soggettivamente” pregiudizievoli per la salute ad altre più consone, in conseguenza sia del dovere “prevenzionale” ex art. 2087 c.c. sia del più generale dovere di cooperazione, scaturente da correttezza e buona fede del creditore-datore di lavoro , finalizzate a consentire al debitore dell’obbligazione lavorativa che questa venga resa in aderenza al suo carattere contrattuale – ci sembrano le più corrette, moderne e rispondenti a rispetto dell’individuo e solidarietà verso le posizioni dei più deboli e meno fortunati (gli ammalati, i disabili, le figure sociali reclamanti naturalisticamente protezione quali la lavoratrice, nel particolare periodo della gravidanza e del puerperio, e simili). Il che ci induce a dissentire in radice dall’opposta opinione di chi (13) li considera iperprotetti e in situazione di immotivato privilegio, suscettibile addirittura di vaglio di costituzionalità – sia pure in relazione alla circoscritta non licenziabilità per giustificato motivo soggettivo ex lege n. 604/1966 – rispetto ai sani e agli integri.
Fonte: PAN rivista Lidap 04-01-2018